(di Piero
Montanari)
Ed eccolo
alla fine l'atteso e scontato annuncio dell'addio alla Roma di
Francesco Totti, uno dei più grandi campioni del calcio,
certamente il più importante che l'AS Roma abbia espresso tra le sue
fila.
Con
poche parole su Facebook ci dice che: “Roma-Genoa,
domenica 28 maggio 2017, sarà l’ultima volta in cui potrò
indossare la maglia della Roma. È impossibile esprimere in poche
parole tutto quello che questi colori hanno rappresentato,
rappresentano e rappresenteranno per me. Sempre. Sento solo che il
mio amore per il calcio non passa: è una passione, la mia passione.
È talmente profonda che non posso pensare di smettere di
alimentarla. Mai. Da
lunedì sono pronto a ripartire. Sono pronto per una nuova sfida.”
Poche
righe laconiche, come suo solito, e come suo solito c'è scritto
molto di più di quello che si legge. Ci dice che amerà per sempre
la Roma, squadra a cui ha dedicato la sua vita e la sua carriera, ma
ci dice anche che non smetterà di giocare a calcio, perché questo
sport lo ama visceralmente, come solo un bambino può fare, e che da
lunedì prossimo, fine dei giochi, lui è pronto a ripartire per una
nuova sfida.
E pensare
che quel bambino aveva promesso tante volte che non avrebbe mai
indossato una maglia che non fosse quella giallorossa, ma quel
bambino non può smettere di giocare, e se la Roma, la “sua” Roma
non lo vuole più o lo vorrebbe come passacarte di lusso, lui è
pronto ad andare via, a giocare ancora da qualche altra parte dove
c'è un campo (“E si nun c'è er campo come faccio a giocà?” ci
dice Francesco, testimonial in una delle tante sue divertenti
pubblicità ).
La
stagione 2016/17 deve essere stata un vero calvario per quel bambino,
costretto nel recinto dei tori infuriati in panchina, e buttato
dentro l'arena da Spalletti – il “piccolo uomo che non lo faceva
giocare” - per tre o quattro minuti ogni volta, alla fine, quando
la partita era già aggiudicata per la Roma, quasi un insulto,
l'ultima ingiuria al “dio” dei calciatori, In Nome Franciscus Rex
Romanorum. Eppure quel quarantenne bambino lo scorso anno permise
alla Roma, con le sue giocate fantastiche, di entrare in Champions,
anche se dalla porta di servizio.
Sappiamo
che non deve essere stato facile neanche per Spalletti gestire questo
ultimo difficile anno di Totti, tra polemiche e pressioni
dell'ambiente, con la tifoseria divisa tra Totti si e Totti no, con
la società latitante e lui, il cervellotico e bravo allenatore di
Certaldo, plenipotenziario con diritto di vita e di morte, a non
sapere cosa fare e soprattutto cosa farci, con questo bambino
quarantenne, pieno di talento ma – secondo lui – non più buono a
vincere le partite. Un calvario, appunto, come dicevamo prima.
Per
Francesco Totti da Porta Metronia, per questo straordinario e
amatissimo talento indiscusso del calcio che va via dalla Roma dopo
ventiquattro anni dall'esordio (a
16 anni il 28 marzo 1993, nei minuti finali della partita Brescia
Roma (0-2),
ci piace rispolverare ciò che rispose la teologa tedesca
Dorothee Solle ad un giornalista che le chiedeva di spiegare ad un
bambino che cos'è la felicità: “Non glielo spiegherei,”
rispose, “gli darei un pallone per farlo giocare”.
Ed è quel
pallone che Francesco ancora vuole tra i piedi, per continuare il
sogno, in barba all'età, alle promesse, ai tifosi, alla Società, a
Spalletti, forse anche alla sua amata famiglia, perché il suo amore
per il calcio riuscirà ad essere sempre più forte di qualsiasi
disillusione, e perché questi sono, come scrisse Eduardo Galeano gli
“Splendori e le Miserie del gioco del calcio”. Arrivederci
Capitano, va dove ti porta il cuore.
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