(di Piero Montanari)
L'appuntamento con la
piccola troupe televisiva è a via Dei Monti Parioli, davanti al
portone della casa dove Antonio De Curtis, in arte Totò, è vissuto
e morto. Aspetto un po' sotto il sole cocente di un'estate arrivata
in anticipo, tra eccessivi e inebrianti profumi di fiori, in quella
strada a senso unico costeggiata da villini e palazzi signorili, che
sicuramente Totò aveva scelto per il silenzio quasi cimiteriale e
l'incanto dell'architettura raffinata delle case.
Aspetto ancora un po' poi
suono timidamente al citofono dorato e perfettamente lucidato a
Sidol, sotto un nome che mi era stato dato, e salgo al piano. Già
dentro l'ascensore, con i legni e i pulsanti dell'epoca della sua
costruzione, l'atmosfera sembra quella di una macchina del tempo.
Scendo e per l'emozione la testa inizia a girarmi già sul
pianerottolo, dove si affacciano due appartamenti, uno di fronte
all'altro. Non so quale dei due è il “mio”, però una delle due
porte socchiuse mi invita ad entrare. “Ecco – ho pensato –
questa è casa Sua, la casa di Totò, e sto entrandoci, proprio io”.
E non riesco ancora a crederlo.
La domestica mi fa cenno
di stare zitto e mi fa entrare nel salone principale, dove trovo la
troupe televisiva intenta, vicino ad un vecchio pianoforte marrone
che troneggia nella stanza, a riprendere il giornalista che mi ha
invitato, mentre racconta qualcosa. Si fermano, mi presento a tutti
ed inizio a parlare con il padrone di casa, un distinto signore un
po' agé, che comprò quasi sessant'anni fa l'appartamento da Franca
Faldini, la compagna che stette vicino al Principe negli ultimi
quindici anni di vita. Mi dice che acquistò anche due o tre mobili
pregiati che lasciarono lì, e quel pianoforte. Si, il pianoforte di
Totò, che il Principe non sapeva suonare, usando solo il dito
indice, ma che grazie al quale poté scrivere tante canzoni ricche di
bellissime melodie e fascino, qualcosa che Totò aveva nel profondo
dell'anima.
Mi siedo dietro al
pianoforte per iniziare l'intervista, provo a toccarlo e quasi non
riesco per l'emozione, ma poi abbasso le mani sulla tastiera d'avorio
gialla e malridotta, provo a toccare quei tasti che Totò aveva
toccato. Nessun suono, nulla, solo martelletti che vanno sulle corde
e non tornano, producendo uno stridio agghiacciante. “Ma io debbo
suonare almeno qualche nota di Malafemmena, non posso non farlo”
penso, e cerco tra le ottave almeno un Do, un Re, un Mi e un Si che
funzionano. Li trovo in alto, fortunatamente, mentre e il giornalista
inizia a farmi le domande e il cameraman a riprendere. Ma perché ero
lì? Perché ho realizzato le sigle e tutte le musiche di commento
dei programmi su Totò che Giancarlo Governi ha scritto e prodotto
per la Rai, e la sigla che abbiamo utilizzato maggiormente, a parte
Totò Rap, è stata proprio la canzone più famosa di Totò,
Malafemmena, una volta cantata da Fausto Leali, poi da James Senese
ed infine arrangiata in stile rock per la prima sigla di testa del
Pianeta Totò.
Ecco perché ero lì,
anche se pensavo tra me e me di usurpare qualcosa. Alla fine il
giornalista mi chiede di accennare le prime note di Malafemmena. Il
piano, stonatissimo e mai riparato, risponde con tutti i suoi annosi
acciacchi alla mia richiesta... Do – Do – Do, Do – Re – Mi –
Re -Do – Si... e su quella nota, impossibile da riconoscere come
tale, mi abbandona malinconicamente.
Ma che importa? Ho
suonato il pianoforte di Totò e tanto mi basterà per i miei
racconti davanti al caminetto.
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