COMPLEANNO
70 anni per Edoardo Bennato, e non sono solo canzonette
Milano, 19 luglio 1980, lo stadio di San Siro si riempie di gente già dalle prime ore del pomeriggio, e non per vedere una partita del Milan o dell'Inter
Milano, 19 luglio 1980, lo stadio di San Siro si riempie di gente che accorre già dalle prime ore del pomeriggio, e non per vedere una partita del Milan o dell'Inter, ma per ascoltare il concerto di Edoardo Bennato. La data è storica, perché quei 60 mila e oltre che assistettero all'esibizione del rocker napoletano, lo fecero per la prima volta in assoluto a San Siro per ascoltare un artista. Quell'estate fu magica e fu dei record per Edoardo, che riempì anche il San Paolo a Napoli e il Comunale di Torino fino all'inverosimile, e totalizzò più di 500 mila persone in tredici date.
Bennato arriva faticosamente al successo di quell'anno, passando per strade difficili, dopo gli inizi duri con i suoi fratelli, Eugenio del 1948 e Giorgio, classe 1949 con i quali, alla fine degli anni '50 mette su un trio in cui Edoardo canta e suona la chitarra, Eugenio suona la fisarmonica e Giorgio le percussioni. Per trovare un altro raro terzetto di fratelli musicisti in Italia, bisogna tornare indietro di qualche anno, e andare dai fratelli Ciacci che, con Alberto al basso, Enrico alla chitarra e Tony alla voce, formarono i Little Tony Brothers.
Edoardo comincia a scrivere canzoni per altri artisti all'inizio dei '70: i “battistiani” Formula Tre, Bruno Lauzi ma anche Bobby Solo, fino che a Milano, dove si era recato per gli studi di architettura, non incontra il produttore Alessandro Colombini che lo spinge a incidere il suo primo LP, Non farti cadere le braccia, che però non ha successo. Il mondo musicale accetta con difficoltà quello strano one man band con gli occhiali scuri che suona, alla maniera del suo maestro Bob Dylan, la chitarra e l'armonica a bocca, tenuta su da quella buffa protesi intorno al collo, e canta parole con vocali aperte e strascicate, tanto da spingere il direttore artistico della Ricordi, Lucio Salvini, a suggerigli di piantarla con la musica e fare l'architetto.
E invece Edoardo non gli dà retta e macina canzoni e dischi. Se ne conteranno almeno una ventina in studio e dieci dal vivo, senza contare gli innumerevoli singoli, e poi i concerti, che sono stati la vera forza portante del successo di questo splendido rocker partenopeo che in quanto a gusto e capacità creativa può permettersi di guardare dall'alto i suoi epigoni arrivati dopo di lui, ma che di Bennato non hanno né la classe, né l'originalità.
Un album antologico pubblicato nel 2002 e una canzone su tutti, "L'isola che non c'è", un brano alla maniera di Bennato, con la chitarra acustica e l'armonica in primo piano, una dodici corde che entra nella seconda strofa, un accompagnamento di archi cameristici e un leggero tappeto di tastiere a puntualizzare questa delicata canzone di Edoardo. Ascoltandola per l'ennesima volta senza stancarci, ci raccontiamo per l'ennesima volta che non sono solo canzonette e lo ricordiamo rispettosamente all'eterno Peter Pan del rock, insieme a tutti i nostri auguri.
Bennato arriva faticosamente al successo di quell'anno, passando per strade difficili, dopo gli inizi duri con i suoi fratelli, Eugenio del 1948 e Giorgio, classe 1949 con i quali, alla fine degli anni '50 mette su un trio in cui Edoardo canta e suona la chitarra, Eugenio suona la fisarmonica e Giorgio le percussioni. Per trovare un altro raro terzetto di fratelli musicisti in Italia, bisogna tornare indietro di qualche anno, e andare dai fratelli Ciacci che, con Alberto al basso, Enrico alla chitarra e Tony alla voce, formarono i Little Tony Brothers.
Edoardo comincia a scrivere canzoni per altri artisti all'inizio dei '70: i “battistiani” Formula Tre, Bruno Lauzi ma anche Bobby Solo, fino che a Milano, dove si era recato per gli studi di architettura, non incontra il produttore Alessandro Colombini che lo spinge a incidere il suo primo LP, Non farti cadere le braccia, che però non ha successo. Il mondo musicale accetta con difficoltà quello strano one man band con gli occhiali scuri che suona, alla maniera del suo maestro Bob Dylan, la chitarra e l'armonica a bocca, tenuta su da quella buffa protesi intorno al collo, e canta parole con vocali aperte e strascicate, tanto da spingere il direttore artistico della Ricordi, Lucio Salvini, a suggerigli di piantarla con la musica e fare l'architetto.
E invece Edoardo non gli dà retta e macina canzoni e dischi. Se ne conteranno almeno una ventina in studio e dieci dal vivo, senza contare gli innumerevoli singoli, e poi i concerti, che sono stati la vera forza portante del successo di questo splendido rocker partenopeo che in quanto a gusto e capacità creativa può permettersi di guardare dall'alto i suoi epigoni arrivati dopo di lui, ma che di Bennato non hanno né la classe, né l'originalità.
Un album antologico pubblicato nel 2002 e una canzone su tutti, "L'isola che non c'è", un brano alla maniera di Bennato, con la chitarra acustica e l'armonica in primo piano, una dodici corde che entra nella seconda strofa, un accompagnamento di archi cameristici e un leggero tappeto di tastiere a puntualizzare questa delicata canzone di Edoardo. Ascoltandola per l'ennesima volta senza stancarci, ci raccontiamo per l'ennesima volta che non sono solo canzonette e lo ricordiamo rispettosamente all'eterno Peter Pan del rock, insieme a tutti i nostri auguri.
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