Joe Cocker
di Piero Montanari
Ne sono certo, nessuno era più nero di lui, neanche col trucco, come Al Jolson, l'attore bianco finto negro, interprete del primo film sonoro della storia del cinema, il "Cantante di Jazz", del 1927, che si mise del cerone per sembrare black, mentre cantava Swanee. Joe la negritudine ce l'aveva nella voce e non nell'aspetto, essendo un englishman bianchissimo di pelle e rosso di capelli, nato a Sheffield, distretto metropolitano del South Yorkshire, Inghilterra.
Ne sono certo, nessuno era più nero di lui, neanche col trucco, come Al Jolson, l'attore bianco finto negro, interprete del primo film sonoro della storia del cinema, il "Cantante di Jazz", del 1927, che si mise del cerone per sembrare black, mentre cantava Swanee. Joe la negritudine ce l'aveva nella voce e non nell'aspetto, essendo un englishman bianchissimo di pelle e rosso di capelli, nato a Sheffield, distretto metropolitano del South Yorkshire, Inghilterra.
Ma la sua voce aveva ingannato tutti, anche perché quando si esibiva nelle cover di brani famosi dei Beatles e le radio del 1968 trasmettevano With a little help from my friends, pensavamo che non solo fosse un nero a cantarla, ma un nero più nero della pece, con quella voce ricca di blues e roca come quella di un fumatore da 100 sigarette al giorno.
E invece Joe Cocker era bianco, e quando lo scoprimmo era troppo tardi per smettere di amarlo. Cantava come e meglio di qualsiasi bluesman nero sulla piazza, e il patto con tutti noi ammiratori si consolidò, soprattutto quando lo sentimmo cantare a Woodstock, nel 1969, al concerto dei concerti, un brano di Leon Russel, Delta Lady, che Joe interpretò magistralmente e che segnò la sua definitiva consacrazione nel mondo della musica che conta. L'universo un po' aristocratico dei puristi del blues è sempre pronto ad accoglierti ma anche a cacciarti se non porti in dote le 'black roots', le radici nere, che sono il vero e unico passaporto per essere considerato a tutti gli effetti un bluesman che si rispetti.
La voce era straordinaria. Continuano sensa sosta i successi di Joe, con quella sua strana postura mentre canta, le braccia tese e immobili sui fianchi, come fosse in preda ad una crisi spastica. She came in Trough te bathroom window, ancora un brano beatlesiano da Abbey Road decreta un altro fortissimo successo, e fa di Joe Cocker un interprete canoro tra i più amati del mondo.
Ma sempre più spesso la cronaca deve occuparsi anche dei suoi ingressi devastanti nel mondo della droga e dell'alcol, tanto da relegarlo per molti anni nel silenzio o quasi.
Ma la sua voce lo riporta in alto nel 1980, ripulito e disintossicato, piazza il suo You can live your hat on, brano famosissimo dal film 9 settimane e 1/2, che lo rilancia nelle classifiche mondiali.
Da quella straordinaria canzone, la vita di Joe è un susseguirsi di successi (You Are So Beautiful, Ain't No Sunshine, Unchain My Heart, Feelin' Alright, solo per ricordarne pochi) e di momenti di disgregazione fisica, sempre a causa delle sue dipendenze e dei suoi eccessi, fino al conclamarsi della malattia, un carcinoma polmonare del quale era affetto da molto tempo e che non gli dà scampo, una malattia che colpisce beffardamente proprio i polmoni, e chi gli procurerà la morte nel suo ranch americano a Crawford, Colorado, terra di cercatori d'oro e di pellirosse, non certo di bluesman neri