di Piero Montanari
Ma Nino non aver paura a sbagliare un calcio di rigore, non è mica da questi particolari che si giudica un giocatore, un giocatore lo vedi dal coraggio, dall'altruismo e dalla fantasia.
(da "La leva calcistica della classe '68" di Francesco De Gregori, dedicata ad Agostino Di Bartolomei).
E Nino - Agostino, quel maledetto giorno del 30 maggio di vent'anni fa, chissà se ebbe paura di sbagliare la mira e mancare il suo cuore di uomo e calciatore generoso, quando impugnò la sua Smith & Wesson calibro 38 e mise fine alla sua vita. Di certo il pensiero gli corse al suo giovane figlio Luca, alla sua adorata moglie, ma il dolore, il male di vivere, insopportabile come un macigno sul petto, gli diede il coraggio di premere quel dannato grilletto.
E così che a soli 39 anni pose fine alla sua vita l'amatissimo capitano dell'A.S. Roma Agostino Di Bartolomei, uno scudetto e tre Coppe Italia vinte, ma anche una drammatica finale di Coppa dei Campioni persa nel suo stadio, davanti ai suoi tifosi, contro il Liverpool, proprio dieci anni prima di uccidersi, lo stesso maledetto giorno.
Di certo quella finale mancata, l'unica che la Roma giocò nella sua storia, deve aver pesato nella testa di quel ragazzo, cresciuto calcisticamente al campo OMI, vicino al quartiere periferico di Tor Marancia a Roma, dov'era nato. Agostino entrò poi nelle giovanili della Roma e fece l'esordio in prima squadra nella stagione 1972-1973, a poco più di diciotto anni contro l'Inter, a Milano, sotto la direzione tecnica di Manlio Scopigno.
Il ragazzo era bravo e taciturno, corretto e gran lavoratore e presto si guadagnò la stima e il rispetto di tutti, anche dei suoi avversari, tanto da collezionare in carriera un solo cartellino rosso, per altro, quella volta, in comproprietà con lo juventino Pietro Paolo Virdis. Divenne capitano della Roma alla fine degli anni '70 e lo rimase fino al giorno in cui la società non lo cedette, sotto l'egida del d.t. Sven Goran Eriksson. Dopo Milan e Cesena, finì nella Salernitana e fu forte il suo apporto di grande professionista alla squadra, tanto da farle raggiungere, dopo 23 anni di assenza, la serie B.
Ma è l'uomo che ci interessa, tormentato dalla tristezza della fine della sua carriera, con i riflettori che inevitabilmente si spensero sulla sua stella. A queste persone fragili basta poco, molto poco per andare in pezzi. Qualcuno disse che aveva problemi economici, altri dissero che Agostino si uccise perchè dimenticato dal mondo del calcio, qualcuno cercò anche di farlo passare per delinquente, criticando il fatto che girasse con una pistola. Nessuno ha capito veramente di cosa soffrisse Agostino. La depressione è un male semisconosciuto oggi, figuriamoci vent'anni fa, quando solo parlarne era un tabù.
Non ricordo chi lo disse, ma le persone che arrivano alla fama e al successo hanno bisogno più di altri di attenzione ed affetto, quando fama successo svaniscono, anche se sembra un paradosso. Proprio loro, che anno avuto tanto, tutto dalla vita, diventano fragili e più a rischio di tutti, come Nino-Agostino, che però non ebbe paura, quella mattina del 30 maggio 1994 a Castellabate, di tirare quell'ultimo, preciso, tragico calcio di rigore.
(da "La leva calcistica della classe '68" di Francesco De Gregori, dedicata ad Agostino Di Bartolomei).
E Nino - Agostino, quel maledetto giorno del 30 maggio di vent'anni fa, chissà se ebbe paura di sbagliare la mira e mancare il suo cuore di uomo e calciatore generoso, quando impugnò la sua Smith & Wesson calibro 38 e mise fine alla sua vita. Di certo il pensiero gli corse al suo giovane figlio Luca, alla sua adorata moglie, ma il dolore, il male di vivere, insopportabile come un macigno sul petto, gli diede il coraggio di premere quel dannato grilletto.
E così che a soli 39 anni pose fine alla sua vita l'amatissimo capitano dell'A.S. Roma Agostino Di Bartolomei, uno scudetto e tre Coppe Italia vinte, ma anche una drammatica finale di Coppa dei Campioni persa nel suo stadio, davanti ai suoi tifosi, contro il Liverpool, proprio dieci anni prima di uccidersi, lo stesso maledetto giorno.
Di certo quella finale mancata, l'unica che la Roma giocò nella sua storia, deve aver pesato nella testa di quel ragazzo, cresciuto calcisticamente al campo OMI, vicino al quartiere periferico di Tor Marancia a Roma, dov'era nato. Agostino entrò poi nelle giovanili della Roma e fece l'esordio in prima squadra nella stagione 1972-1973, a poco più di diciotto anni contro l'Inter, a Milano, sotto la direzione tecnica di Manlio Scopigno.
Il ragazzo era bravo e taciturno, corretto e gran lavoratore e presto si guadagnò la stima e il rispetto di tutti, anche dei suoi avversari, tanto da collezionare in carriera un solo cartellino rosso, per altro, quella volta, in comproprietà con lo juventino Pietro Paolo Virdis. Divenne capitano della Roma alla fine degli anni '70 e lo rimase fino al giorno in cui la società non lo cedette, sotto l'egida del d.t. Sven Goran Eriksson. Dopo Milan e Cesena, finì nella Salernitana e fu forte il suo apporto di grande professionista alla squadra, tanto da farle raggiungere, dopo 23 anni di assenza, la serie B.
Ma è l'uomo che ci interessa, tormentato dalla tristezza della fine della sua carriera, con i riflettori che inevitabilmente si spensero sulla sua stella. A queste persone fragili basta poco, molto poco per andare in pezzi. Qualcuno disse che aveva problemi economici, altri dissero che Agostino si uccise perchè dimenticato dal mondo del calcio, qualcuno cercò anche di farlo passare per delinquente, criticando il fatto che girasse con una pistola. Nessuno ha capito veramente di cosa soffrisse Agostino. La depressione è un male semisconosciuto oggi, figuriamoci vent'anni fa, quando solo parlarne era un tabù.
Non ricordo chi lo disse, ma le persone che arrivano alla fama e al successo hanno bisogno più di altri di attenzione ed affetto, quando fama successo svaniscono, anche se sembra un paradosso. Proprio loro, che anno avuto tanto, tutto dalla vita, diventano fragili e più a rischio di tutti, come Nino-Agostino, che però non ebbe paura, quella mattina del 30 maggio 1994 a Castellabate, di tirare quell'ultimo, preciso, tragico calcio di rigore.
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