di Piero Montanari
Il 3 febbraio di cinque anni fa moriva all’ospedale Pertini di Roma non ancora ottantenne, per una malattia fulminante, Romano Mussolini. La sua è una storia davvero straordinaria che voglio ricordare, essendogli stato amico ed avendo suonato con lui per molti anni.
Prima parte.
Quarto, dei cinque figli di Benito Mussolini e Rachele Guidi inizia a suonare il piano mentre era confinato con la madre e la sorella ad Ischia, dopo la caduta del fascismo e sotto la guida più esperta di Ugo Calise, l’autore di Nun è peccato e ‘Na voce, ‘na chitarra e ‘o poco ‘e luna. Il jazz è la “musica nuova” importata dagli americani con i Victory Disc, ma amata anche da suo fratello Vittorio che gliela fa conoscere, e Romano ne viene folgorato, non ostante pochi anni prima suo padre l’avesse addirittura proibita.
Comincia così una carriera che lo porterà a suonare in tutto il mondo e con i jazzisti più importanti, molti dei quali incuriositi dalla sua personalità e, soprattutto, dal suo cognome tragico.
Roma, gli anni ’50 e ’60, i personaggi della Dolce Vita, i locali di via Veneto, il Cinema, la Hollywood sul Tevere, gli scandali, la nascita del gossip, i paparazzi e il jazz come comun denominatore, come colonna sonora, come “collante” nella storia del figlio del Duce che suonava il Jazz.
La vita di Romano è stata sempre caratterizzata da due elementi fortissimi della sua personalità, ambedue equivalenti ed in contrasto fra loro: la pesantezza del cognome che si portava dietro, con il suo percorso tragico e gli strascichi lasciati al giudizio della Storia e a quello delle persone che incontrava, e il suo carattere allegro e gioviale, tendente alla giocosità ed alla goliardia, apparentemente superficiale, non per natura ma per esigenze di sopravvivenza.
(A Ischia, con la sorella Annamaria)
Del suo cognome aveva un forte pudore ma, al tempo stesso, una grande fierezza e non accettava mai giudizi sull’operato della sua famiglia che non fossero ammorbiditi da classici luoghi comuni del genere – Tuo padre ha fatto solo l’errore di entrare in guerra - oppure – Se non si fosse alleato con Hitler sarebbe stato diverso – e via su questo genere. Peraltro gli piacevano molto i giudizi estetici sul fascismo e sulle cose buone che il padre aveva fatto, come quelle legate all’architettura, ultimo esempio di stile concettuale, in un’Italia che sarebbe poi finita negli scempi dei cementificatori. Gli piaceva molto la Storia, leggerla, studiarla, revisionarla a suo piacere, forse solo per quietare qualche senso di colpa che certamente si portava dietro, causa principale della sua timidezza e delle sue nevrosi.
Mi meravigliavo sempre dei consensi che otteneva non solo come pianista ma soprattutto come figlio del duce, ed ero sorpreso che mai nessuno gli si parasse davanti minacciosamente, magari dicendo – Ehi, tu sei il figlio di un dittatore pazzo che ha distrutto l’Italia e ti odio! – Generalmente gli si avvicinavano persone che lo riconoscevano o sapevano chi era e lo abbracciavano, ricoprendolo di elogi per suo padre, la sua famiglia e il fascismo. Alcuni piangevano e lo baciavano, altri gli chiedevano un autografo sulla tessera del Msi, il rinato partito fascista di Giorgio Almirante, ma mai nessuno che lo abbia insultato, a mia memoria. Spesso le persone si rivolgevano a me che gli ero vicino e con voce sognante mi dicevano – E’ tutto suo padre! – E io mi incazzavo, pensando che lui da suo padre era altro e che in Italia c’erano veramente ancora milioni di nostalgici fascisti con la memoria corta. A quel tempo, si parla degli anni ’70, ero piuttosto intransigente e in giro con Romano si mandava giù qualche boccone politico non proprio squisito.
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