venerdì 24 aprile 2015

Il futuro della Musica? Un inarrestabile rubinetto digitale


di Piero Montanari

Ho imparato ad ascoltare la musica grazie ai dischi di jazz e di classica che la mia "illuminata" sorella comperava, non si sa con quali soldi, agli inizi degli anni '50, con una guerra finita da poco, povertà e tutto da ricostruire.

Avevo quattro o cinque anni e, pur non sapendo ancora leggere, individuavo i brani dalla forma delle etichette sui pesantissimi 78 giri e non ne sbagliavo uno. Li posavo delicatamente e li suonavo sul piatto del mastodontico giradischi di metallo inserito nel mobile di radica, unica tecnologia a disposizione insieme alla radio con le manopolone da posto di comando del Nautilus di Verne. Almeno fino a quando, come d'incanto nel 1954, mio padre non fece apparire in casa un televisore Royal Eagle, anch'esso di radica, dal peso di un piccolo elefante e dal costo di un anno di stipendio medio di un operaio.

Quando arrivarono i cosiddetti "extended play", dischi piccoli con quattro canzoni, due per facciata, e poi i magnifici e lunghi 33 giri, ero già grandicello, e iniziai a leggere le note di copertina che i 78 giri non avevano, essendo imbustati senza nessuna stampa, cosa che poi non ho mai smesso di fare.

Fu così che imparai a conoscere tutto quello che che esisteva oltre l'Artista: le sale di registrazione, i produttori musicali, le case discografiche, il management, in quale bar si rifornivano per i beveraggi, i parenti e le persone a cui dedicavano i dischi e infine, oltre all'"orchestra diretta da", i musicisti che partecipavano alla seduta di registrazione.

Li conoscevo tutti, molti erano grandi jazzisti che si prestavano anche a fare i turnisti in sala per gli artisti pop od altri generi musicali, grazie al loro smisurato talento. Fu anche per loro che mi innamorai di questo mestiere e volli farlo a tutti i costi.

Oggi l'infinita tecnologia della quale disponiamo e che ha mandato in pensione anche l'ultimo dei supoporti musicali "fisici", il CD, ci permette di accedere, aprendo un ideale rubinetto, a flussi inarrestabili di musica liquida e liquefatta della quale, a malapena, conosciamo il titolo del brano e l'artista e spesso neanche quello. Tutto sconosciuto, impersonale, indecifrabile; non si sa chi suona, chi produce, dove è stato realizzato il lavoro, che strumentazione hanno usato, in una solitudine che sconforta l'anima e alla quale puoi solo parzialmente fare fronte utilizzando un'altra mostruosità tecnologica, Shazam, un'app. che in pochi secondi ti dice cosa stai ascoltando e basta.

Siamo costretti a citare ancora il famoso saggio del 1936 di Walter Benjamin "L'opera d'arte nell'epoca della sua riproducibilità tecnica" dove, tra le tante straordinarie intuizioni da vero visionario, l'Autore dice: "La riproduzione ripete l'opera d'arte sottraendole l'autenticità, che ne costituiva nel passato la caratteristica fondamentale, l'essenza stessa dal punto di vista della fruizione, che si trasforma in consumo. Da evento irripetibile l'opera si trasforma attraverso la moltiplicazione delle riproduzioni"

Lo stesso Benjamin poi, commentando un quadro di Klee, Angelus Novus, ci racconta che quell'angelo ha lo sguardo spalancato nel passato e ne osserva le sue macerie, mentre è in procinto, con le ali dispiegate, di fare un balzo nel futuro, sostenuto e irrimediabilmente sospinto da una ineluttabile tempesta che Benjamin chiama Progresso.

Il vento del Progresso non ce lo siamo fatti scappare, abbiamo volato grazie a lui, ma ora dobbiamo fermarci e riflettere perchè quelle macerie non ci sotterrino anzitempo.

giovedì 9 aprile 2015

Se il calcio vomita insulti e infamie



di Piero Montanari

"Che cosa triste... lucri sul funerale con libri e interviste", "C'è chi piange un figlio con dolore e moralità e chi ne fa un business senza dignità" e ancora, "Dopo il libro, il film". Ecco quello che raccontavano gli striscioni apparsi in curva sud durante la partita Roma - Napoli, indirizzati alla mamma di Ciro Esposito, il tifoso napoletano che si presume assassinato da un tifoso romanista, Daniele De Santis, in circostanze ancora tutte da accertare, prima della finale di Coppa Italia dello scorso 3 maggio svoltasi a Roma.

Questa povera signora, Antonella Leandri, sarebbe "colpevole" secondo quei sedicenti tifosi, di essere stata alla presentazione del libro "Ciro vive", scritto dalla giornalista Vittoriana Abate, collaboratrice di Vespa a Porta a Porta, e di andare in giro a spargere parole di pace e di buon senso sulla violenza che si consuma negli stadi e soprattutto fuori di essi, proprio lei, che ha subìto la perdita del suo amatissimo figlio Ciro, venuto a Roma solo per assistere ad una partita di calcio, e ritornato a Napoli, dopo alcune settimane di coma, in una bara di legno.

Proprio lei, che disse, subito dopo il fatto, rivolta al presunto sparatore: "Non ho parole, perché per me è una mostruosità quella che ha fatto. Io nel mio cuore già l'ho perdonato ma non riesco a capire quello che ha fatto. Forse sono sbagliata ma io non lo odio. Siamo fratelli d'Italia che sono queste cose?"

La volgarità di questi striscioni si commenta da sola, non c'è bisogno di aggiungere epiteti nei confronti di chi li ha scritti e di chi, a proposito, ha permesso che venissero, prima portati in curva, e poi mostrati, segno che le curve sono assolutamente zone franche, territori dove tutto è permesso, dove vige la "legge" del gruppo, e dove chi è più forte detta le regole, anche se marce. A loro non vorrei dire nulla di più, se non che da tifoso della stessa loro squadra sono il primo a vergognarmi per quello che hanno scritto alla mamma di Ciro.

Spero che non debbano mai subire un dolore così insopportabile come la perdita di un giovane figlio e in circostanze così drammaticamente inutili, e aggiungo semplicemente che ognuno che venga colpito da un dolore di questa portata ha il sacrosanto diritto di elaborare una perdita così lancinante come crede, magari cercando che la luce di Ciro resti sempre accesa, con un libro, un articolo, anche con un film.
Altro che lucrare.

venerdì 3 aprile 2015

Addio a Giampiero Rubei, colonna portante del jazz romano

Life

Addio a Giampiero Rubei, colonna portante del jazz romano

Per più di trent'anni aveva legato il suo nome al club da lui fondato e diretto, l'Alexanderplatz, fulcro storico di tutti i musicisti jazz

giovedì 2 aprile 2015 14:51

Giampiero Rubei

Giampiero Rubei
di Piero Montanari

Il jazz romano perde oggi Giampiero Rubei una delle sue figure più significative e appassionate, che aveva fatto di questa musica non solo un modo di essere ma un'attività vera e propria, e un punto di riferimento della musica jazz della Capitale.

Per più di trent'anni Rubei aveva legato il suo nome al club di jazz da lui fondato e diretto, l'Alexanderplatz, fulcro storico di tutti i musicisti romani ed internazionali che hanno, dal 1984, data della sua apertura, calcato il piccolo e infuocato palco del locale di via Ostia. Sono nomi giganteschi: Chet Baker, Chick Corea, Wynton Marsalis, Ray Brown, Michel Petrucciani, e i nostri Stefano Di Battista, Roberto Gatto, Danilo Rea, e tantissimi altri di stesso prestigio.

Poi l'estate quel palco infuocato si trasferiva in grande nella splendida e verde cornice di Villa Celimontana, sempre con l'attenta direzione artistica di Rubei e dove, tra un drink e un piatto tipico, potevi ascoltare musicisti del calibro dei Manhattan Tranfer o di Michael Brecker.

L'impegno per il Jazz di Giampiero non si fermava mai. Fu direttore artistico anche della Casa del Jazz, la lussuosa e famosa villa di fronte alle mura aureliane che fu di propietà del "ragioniere" della banda della magliana, Enrico Nicoletti, e che dopo il sequestro, per volere della giunta Veltroni, divenne appunto la Casa del Jazz.

Persone come Rubei sono rare, purtroppo, perché hanno dato vita a progetti difficili come quello di investire sul jazz e sui musicisti che suonano questo genere musicale, bellissimo e unico, particolare e certamente non di facile cassetta.

Giampiero ebbe oltretutto l'intelligenza di raccogliere il testimone di un altro grande attivista jazz, Pepito Pignatelli, il Principe batterista che per anni aveva diretto un altro locale storico romano, il Music Inn di Largo dei Fiorentini, per il quale anche lui si dannò anima e corpo come fece Giampiero con il suo.

Sapevo che l'Alexanderplatz aveva avuto tanti problemi economici, che era stato chiuso e poi, grazie al figlio di Giampiero e ad alcuni aiuti, riaperto. Ma le difficoltà sono continuate, purtroppo, ed ora la morte del "patron" Rubei a sancire la fine di un'epoca straordinaria e irripetibile per il jazz romano e italiano.