venerdì 28 luglio 2017

QUELLE MALEDETTE ANIME FRAGILI


di Piero Montanari


Amy Winehouse morì tragicamente il 23 luglio di sei anni fa per gli eccessi di alcol e droga, e la sua fine, purtroppo scontata, era stata prevista a breve perfino da sua madre, e suo padre aveva già scritto l'epitaffio per la sua tomba. Una storia che fece raccapriccio questa di Amy, cronaca di una morte annunciata e avvicinata ad altrettante morti tragiche e famose: Brian Jones, asmatico chitarrista degli Stones, morto affogato di droga e alcol nell'acqua nella sua piscina, Jimi Hendrix, soffocato dal suo vomito, Janis Joplin, Jim Morrison, Kurt Cobain, una sfilza di overdosi, il "Club dei 27", come viene brutalmente e tristemente chiamato questo gruppo di musicisti della 'rock area' che non arrivano a festeggiare il 27mo compleanno, e che negli ultimi 40 anni si sono distinti per il grande talento e i grandi eccessi. Ma vengono in mente tanti altri straordinari personaggi che hanno unito questo talento ad una vita senza freni e dissoluta. Ricordo, anche per averci suonato insieme, il grande, grandissimo trombettista americano Chet Baker, la fantastica "tromba bianca" che visse suonando divinamente ma entrando ed uscendo dagli ospedali per disintossicarsi dalle dipendenze. Il 13 maggio 1988, non ancora sessantenne, Chet morì cadendo dalla finestra di un albergo di Amsterdam, spinto giù dalla "scimmia" che stava sulla sua spalla e che non l'aveva mai abbandonato. Ma anche lo straordinario "inventore" del be-bop, Charlie Parker, immortalato dal magnifico film prodotto da Clint Eastwood, Bird, dove si racconta la storia di questo geniale sassofonista morto a trentaquattro anni per gli eccessi di alcol e droghe. E l'elenco continuerebbe tristemente lungo. Strane storie di quel genio e sregolatezza che la società dei "normali" considera inevitabile tra gli artisti, luoghi comuni banali e incongrui, come quello che indica la sofferenza dell'anima viatico essenziale per la creazione dell'opera. Nulla di più falso, lo posso testimoniare. Se stai male non "esce" niente, il dolore e la sofferenza sono i più grandi anestetici della creatività. È la condizione umana che è sofferenza già in sè e non risparmia nessuno, e tutti noi che ci portiamo dietro in ogni istante della vita questo fardello, sappiamo che l'unica cosa che possiamo fare è un passo dopo l'altro in avanti. Le anime fragili, ahimè, soccombono, e cercano di distruggere sé stessi per annullare questo dolore, per loro evidentemente più insopportabile che per altri. Purtroppo, così egoisticamente facendo, ci priveranno per sempre dell'irripetibile straordinarietà del loro talento.

mercoledì 5 luglio 2017

Per me la Corazzata Potëmkin è una cagata pazzesca! 92 minuti di applausi


Di Piero Montanari



Apriamo il nostro solito dibattito – dice il temuto prof. Guidobaldo Maria Riccardelli, megadirettore clamoroso con manie cinefile, magistralmente interpretato dall'amico Mauro Vestri, una caratterizzazione che si è portato dietro per la vita -. “Chi vuol parlare, lei Filini? Calboni?” E qui si alza Fantozzi che chiede di intervenire finalmente, mentre Riccardelli lo invita a parlare e gli ricorda di essere “una merdaccia” e che aspettava da molto un suo parere sulla scena più importante della Corazzata Potëmkin, la donna che salva il suo bambino nella carrozzina spingendolo giù, e che poi cade tra i marinai morti della scalinata di Odessa, mentre l'inquadratura in primo piano è sul famosissimo “occhio della madre”.
In quel che segue e dirà Fantozzi/Fantocci c'è il riscatto dell'Ultimo, la fine di un incubo, la ribellione dell'Uomo vessato, inquadrato nelle morse delle logiche burocratiche aziendali, quando il cosiddetto terziario avanzato rappresentava un incubo per gli impiegati, una gara fatta di colpi bassi e di soprusi ineludibili, una Guyana dell'un contro l'altro mobizzati per un piccolo avanzamento di grado, e i temuti obblighi servili verso i Megadirettori Disumani per mettere la testa un po' fuori dal guano, ed essere finalmente considerati esseri viventi.
Villaggio visse davvero questo incubo che ha magistralmente narrato, quando lavorava alla Cosider di Genova. Raccontava di quel tempo: “Le proiezioni erano abitualmente il sabato sera quando gli intellettuali di sinistra avrebbero voluto divertirsi diversamente, magari andare a cena con una deficiente prosperosa, volgare ma disponibile. Purtroppo c'era il maledetto obbligo del film d'autore, tra i quali il più temuto era la terrificante corazzata Potëmkin.”
Ma ecco che arriva il meritatissimo successo di Paolo Villaggio e lui non tarderà a riscattarsi da quelle maledette serate al cineforum. E questo atteso riscatto arriva nel 1976, sotto la direzione di Luciano Salce, ne Il secondo tragico Fantozzi, dove siamo arrivati quindi all'invito a parlare da parte del prof. Riccardelli, il già citato megadirettore clamoroso con manie cinefile. E Fantocci/Fantozzi, mesto ma deciso, sale sul palco e pronuncia la fatidica frase: “Per me la Corazzata Potëmkin è una cagata pazzesca”

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I 92 minuti di applausi che seguirono, caro Paolo, oggi non si fermeranno più, e proseguiranno di generazione in generazione, ricordando le tue battute, i tuoi film e la tua straordinaria vita. Grazie per quello che ci hai regalato, che è tanta roba, credimi.

Ho suonato il pianoforte di Totò



(di Piero Montanari)


L'appuntamento con la piccola troupe televisiva è a via Dei Monti Parioli, davanti al portone della casa dove Antonio De Curtis, in arte Totò, è vissuto e morto. Aspetto un po' sotto il sole cocente di un'estate arrivata in anticipo, tra eccessivi e inebrianti profumi di fiori, in quella strada a senso unico costeggiata da villini e palazzi signorili, che sicuramente Totò aveva scelto per il silenzio quasi cimiteriale e l'incanto dell'architettura raffinata delle case.

Aspetto ancora un po' poi suono timidamente al citofono dorato e perfettamente lucidato a Sidol, sotto un nome che mi era stato dato, e salgo al piano. Già dentro l'ascensore, con i legni e i pulsanti dell'epoca della sua costruzione, l'atmosfera sembra quella di una macchina del tempo. Scendo e per l'emozione la testa inizia a girarmi già sul pianerottolo, dove si affacciano due appartamenti, uno di fronte all'altro. Non so quale dei due è il “mio”, però una delle due porte socchiuse mi invita ad entrare. “Ecco – ho pensato – questa è casa Sua, la casa di Totò, e sto entrandoci, proprio io”. E non riesco ancora a crederlo.

La domestica mi fa cenno di stare zitto e mi fa entrare nel salone principale, dove trovo la troupe televisiva intenta, vicino ad un vecchio pianoforte marrone che troneggia nella stanza, a riprendere il giornalista che mi ha invitato, mentre racconta qualcosa. Si fermano, mi presento a tutti ed inizio a parlare con il padrone di casa, un distinto signore un po' agé, che comprò quasi sessant'anni fa l'appartamento da Franca Faldini, la compagna che stette vicino al Principe negli ultimi quindici anni di vita. Mi dice che acquistò anche due o tre mobili pregiati che lasciarono lì, e quel pianoforte. Si, il pianoforte di Totò, che il Principe non sapeva suonare, usando solo il dito indice, ma che grazie al quale poté scrivere tante canzoni ricche di bellissime melodie e fascino, qualcosa che Totò aveva nel profondo dell'anima.

Mi siedo dietro al pianoforte per iniziare l'intervista, provo a toccarlo e quasi non riesco per l'emozione, ma poi abbasso le mani sulla tastiera d'avorio gialla e malridotta, provo a toccare quei tasti che Totò aveva toccato. Nessun suono, nulla, solo martelletti che vanno sulle corde e non tornano, producendo uno stridio agghiacciante. “Ma io debbo suonare almeno qualche nota di Malafemmena, non posso non farlo” penso, e cerco tra le ottave almeno un Do, un Re, un Mi e un Si che funzionano. Li trovo in alto, fortunatamente, mentre e il giornalista inizia a farmi le domande e il cameraman a riprendere. Ma perché ero lì? Perché ho realizzato le sigle e tutte le musiche di commento dei programmi su Totò che Giancarlo Governi ha scritto e prodotto per la Rai, e la sigla che abbiamo utilizzato maggiormente, a parte Totò Rap, è stata proprio la canzone più famosa di Totò, Malafemmena, una volta cantata da Fausto Leali, poi da James Senese ed infine arrangiata in stile rock per la prima sigla di testa del Pianeta Totò.

Ecco perché ero lì, anche se pensavo tra me e me di usurpare qualcosa. Alla fine il giornalista mi chiede di accennare le prime note di Malafemmena. Il piano, stonatissimo e mai riparato, risponde con tutti i suoi annosi acciacchi alla mia richiesta... Do – Do – Do, Do – Re – Mi – Re -Do – Si... e su quella nota, impossibile da riconoscere come tale, mi abbandona malinconicamente.

Ma che importa? Ho suonato il pianoforte di Totò e tanto mi basterà per i miei racconti davanti al caminetto.