sabato 25 febbraio 2017

Stadio della Roma allora si poteva fare, viva il compromesso.




(di Piero Montanari - pubblicato su Globalist.it e Ilquotidianodellazio.it)


Quindi sembra essere alla fine della stesura dell'operetta buffa “Lo stadio della Roma”, testo di Beppe Grillo con musiche di James Pallotta, e l'etoile Virginia Raggi al centro della scena, che danza piroettando pezzi di musica immortali. “Lo stadio si fa, lo stadio non si fa, lo stadio si fa qui, lo stadio si fa là, lo stadio, se si fa, non si fa qui ma si fa là!”

E invece lo stadio della Roma si fa proprio a Tor di Valle, però senza le vituperate Torri e con il taglio di almeno il 50% delle cubature previste dal progetto originario. Sembrano essere tutti d'accordo, grande vittoria del Dio Compromesso, unico nume tutelare, Angelo Consigliere di tutte le beghe, vero deus ex machina delle liti tra gli umani.

E pensare che la storia infinita Stadio della Roma sembrava volta ad una fine ingloriosa, con la sindaca Raggi ricoverata al San Filippo Neri per un malore che a noi è parsa una scusa banale per non partecipare alla riunione definitiva in Campidoglio, tanto che abbiamo scritto che sembrava la scusa classica dei bambini quando non fanno i compiti “Maestra, m'è morta nonna!” E le minacce alla Città del presidente giallorosso Pallotta: “Se non mi fate fare lo stadio, inizio a vendere i giocatori migliori e poi vendo l' A. S. Roma, con conseguenze catastrofiche per la città e tutti i romanisti”. Che poi sarebbe facile immaginare scendere in piazza pericolosamente incazzati. Invece per fortuna ha prevalso il buon senso,


"Tre torri eliminate; cubature dimezzate, addirittura il 60% in meno per la parte relativa al Business Park; abbiamo elevato gli standard di costruzione a classe A4, la più alta al mondo; mettiamo in sicurezza il quartiere di Decima che non sarà più soggetto ad allagamenti; realizzeremo una stazione nuova per la ferrovia Roma-Lido. Abbiamo rivoluzionato il progetto dello Stadio della Roma e lo abbiamo trasformato in una opportunità per Roma". E' con queste parole che la sindaca Raggi Virginia, dopo otto mesi di No a qualsiasi proposta, inizia a dire il primo tiepido Si, col beneplacito del suo mentore Beppe Grillo, che è corso ai ripari dopo essersi reso conto di quanto il suo movimento stesse perdendo consensi. Escluso il mio, almeno i voti dei romanisti saranno assicurati.

venerdì 17 febbraio 2017

Quando Berdini non voleva il Colosseo



(di Piero Montanari - pubblicato su Globalist.it e il quotidiano dellazio.it)




Viva Berdini, l'ultimo baluardo del Sacco di Roma, l'unico che avrebbe potuto fermare la cementificazione di questa povera e martoriata Città Eterna, che di eterno ora ha solo le polemiche.
Lo stadio di Pallotta (e non della AS Roma, per carità) ha aperto la stura dei moralisti dell'ultim'ora, dopo anni di progetti, di riunioni, di soldi buttati, di verifiche del territorio, di benestare, di concessioni prima date e poi rimpiante, in un grottesco balletto dove gli scudi si sono levati altissimi, a difesa di un territorio vicino a un fiume Tevere periferico abbandonato da sempre, che frana, smotta, esonda, inonda, pericolosissimo per farci sopra uno stadio con tutto il resto. E poi, tutto questo resto che fa litigare, con torri pendenti che neanche a Pisa s'incazzarono così, inutili centri commerciali (ma che ci facciamo con i centri commerciali se il commercio è in crisi?), colate di pesante cemento che renderà quell'area - se non sprofonderà prima nella Valle del Tevere - un orrido architettonico da tramandare ai postumi, e non dico posteri.

Si, certo, onore all'incauto Berdini che di sicuro non ha brillato di sagacia quando ha espresso il suo pensiero liberamente ad un giornalista camuffato in cerca di scoop. Onore a Berdini, ultimo eroe civile, in mezzo a barbari cementificatori, la mafia del mattone, in mezzo a quel "nulla" amministrativo e politico che lo circondava in Campidoglio. Mi domando solo se gli stessi scudi moralizzatori si levarono all'epoca della costruzione del Colosseo, che deve essere stato un orrore marmoreo per tanti puristi e oggi uno dei monumenti più visitati al mondo, in mezzo al verde prataiolo e pecoreccio della collinetta del Celio. Di sicuro ci sarà stato qualcuno che si è indignato, ma immaginiamo che poi sarà finito in pasto ai leoni, come spesso al tempo succedeva ai rompicoglioni. Meno male che oggi perdi solo il posto.


martedì 14 febbraio 2017

Addio ad Al Jarreau, il cantante dalla tecnica sovrumana

(di Piero Montanari - pubblicato su Globalist.it)



La sua voce non era classificabile tra le voci naturali del canto jazz, perché spaziava dal baritono al mezzo soprano, al soprano leggero con saltabecchi nel basso e nel falsetto, e il suo intenso fraseggio “be bop”unico e fluente, esclusivo ed innovatore, combinava il suo originalissimo stile canoro tra toni acuti e subacuti con toni bassissimi e flautati, alternandoli fra loro con agili e veloci melismi tecnici per creare un'iperattiva sorgente di suoni, mai fuori del suo controllo. Vocalismi a volte eterei ma a volte, invece, così potenti da imitare trombe e sassofoni, come si usa fare nel canto “scat”, quello che imita i suoni dell'orchestra e del quale erano maestri Armstrong e Ella Fitzgerald.

Questo era Al Jarreau, morto al Los Angeles il 12 febbraio a 76 anni, dopo un ricovero per un non precisato “esaurimento nervoso” a causa del quale aveva dovuto annullare tutti i suoi impegni artistici. Una vita nella musica ed icona mondiale dell'eccellenza del canto jazz, Alwyn Lopez, detto "Al" Jarreau da Milwaukee, non aveva rivali e con la voce poteva fare qualsiasi cosa. Così mi disse lui stesso una volta a cena in un ristorante di Roma molti anni fa, quando venne per promuovere un suo nuovo disco, Breakin' Away, che non era propriamente un disco di jazz ma di pop. Me lo ritrovai fortunatamente a fianco nel tavolo e gli chiesi subito perché – lui che era un jazzista puro – avesse deciso di fare la scelta di cantare musica pop. “I can sing everything i want” - posso cantare qualsiasi cosa mi vada, rispose seccamente e un po' scocciato, forse imbarazzato dalla mia domanda troppo diretta.

Ed era vero. In effetti, il figlio del pastore della Chiesa Avventistica del Settimo Giorno, avrebbe potuto cantare anche il vecchio elenco del telefono che avrebbe fatto scalpore. Ammirato nel mondo, tutti i musicisti importanti lo avrebbero voluto nelle loro session per suonare con lui. Venne anche ospite a Sanremo nel 2012 e cantò Parla più piano di Rota con i Matia Bazar, duettò anche con Checco Zalone, che tra l'altro suona magnificamente il piano e ama il jazz. Ma, senza nulla togliere, gli artisti con i quali collaborò avevano nomi più altisonanti: Quicy Jones, Stevie Wonder, Lionel Richie, Michael Jackson, che lo considerava un grande maestro.

Ci mancherà molto Al Jarreau, anche se per fortuna resterà per sempre la sua musica. Forse muore con lui l'ultima icona mondiale del canto jazzistico “scat” e un immenso vocalist con una tecnica strabiliante, ineguagliabile, paragonabile solo a quella di personaggi come Demetrio Stratos degli Area, artisti che hanno superato il canto umano, esplorando territori sconosciuti della voce e scalando vette musicali mai toccate da nessuno.



Quello che le canzoni (di Sanremo) non dicono



(di Piero Montanari - pubblicato su Globalist.it e ilquotidianodellazio.it)

Va bene ci arrendiamo, il Festival di Sanremo è vivo e lotta insieme a noi, e la battaglia non ha storia, perché evidentemente l'ha vinta su tutti i fronti anche quest'anno, con il suo 50,37% di ascolti che supera addirittura il suo vecchio record dello scorso anno, quel 49,48% che già era “incredibile dictu”.

La gente ha premiato la strana accoppiata di presentatori, con Maria De Filippi e Carlo Conti che sanciscono un televisivo compromesso storico che in Italia non era mai riuscito a nessuno: un plauso al tuttologo presentatore toscano che ha avuto la grande idea. Maria fa quello che sa fare bene, sé stessa, col suo tipico profilo basso e intelligente e il suo vocione, che quietano la ridondanza di ansie degli artisti sul palco, dei suoni, fiori e luci dei quali Sanremo è portatore sano da sempre, e a volte – come in tempi di disgrazie e crisi che mai ci facciamo mancare – anche fuori luogo. Ma qui vengono in soccorso i soccorritori di Rigopiano che aggiustano i sensi di colpa.

Noi che siamo da sempre i critici della prima ora del Festival, siamo stati ancora una volta sconfitti da un marchingegno che sembra mettere più o meno d'accordo tutti, spettatori e attori, e faremmo la solita triste figura degli snob a parlarne male, perché magari siamo quelli che preferiscono altra musica o semplicemente la Musica alle canzoni scialbe, o un altro genere di televisione a questa che il Festival propone con irritante insistenza.

Abbiamo ululato alla luna per anni, raccontando di Festival con artisti risibili, apparsi e scomparsi in un nanosecondo dalla scena, e siamo andati in giro ripetendo come un 'mantra' che ormai Sanremo è divenuto uno spettacolone di varietà con brani che difficilmente lasciano il segno, cerimoniale ormai inutile per canzoni-regine, elette e quasi subito detronizzate, perché nessuno le ricorda il giorno dopo. Abbiamo anche detto, in un ultimo afflato di ardore rivoltoso, che il Festival è solo un Gran Bazar, dove viene mostrato il meglio e il peggio del paese, tra canzoni diventate ormai inutile corollario ad una manifestazione che tutto è meno che musica, ma solo la celebrazione di uno degli ultimi fuochi della televisione generalista.

Abbiamo detto questo ed altro, e siamo stati ancora una volta smentiti e inascoltati, perché gli italiani amano il Festival di Sanremo e lo guardano, almeno la metà televisiva di loro, mentre l'altra metà si domanda perché senza essere in grado di darsi una risposta logica. E non venite adesso a dirmi “perché Sanremo è Sanremo!” che m'incazzo.





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lunedì 6 febbraio 2017

Pasquino risponde ar Pasquino Grillino


Cara Virginia, sinnaca bambina
Hanno scritto che sei una da protegge
E siccome me gira bene stamatina,
Non dirò fesso a chi scrive, ma chi legge

Quindi nun te dispiacerà si m'antrometto
Ma solo pe' datte quella protezione
Telefono a n'amico de rispetto
E poi te intesto 'n'assicurazione.

Scajola, porello, nun sapeva gnente
E 'na casa se trovò cotta e magnata
Virgì, sta attenta a te, si fai l'ingrata
Er popolo sovrano poi se pente!

(pubblicato su Globalist.it - febbraio 2017)


venerdì 3 febbraio 2017

Se diventiamo tutti giustizieri della notte



(di Piero Montanari - pubblicato su Globalist.it e Ilgiornaledellazio.it)

Ricordo, non senza un forte disagio che mi assale ogni volta, Il giustiziere della notte, il film del 1974 diretto da Michael Winner, tratto da un romanzo di Brian Garfield e magistralmente interpretato da Charles Bronson, in cui si narra la storia di un ingegnere pacifista (Bronson) al quale, in seguito ad una rapina, viene barbaramente uccisa l'amata moglie e stuprata la figlia. Il tranquillo ingegnere, in seguito al profondo trauma subito, diventa un assassino seriale e la notte esce per cercare di uccidere chiunque gli sembri un bullo o tenti di rubargli il portafoglio, consumando così la cieca vendetta per il brutale torto subito dai suoi cari.

Il film ebbe un grande successo, e generò tantissime critiche per essere l'invocazione popolare alla giustizia sommaria, quella “fai da te”, laddove non viene riconosciuto più il ruolo dello Stato, quello della giustizia ordinaria e la tutela delle forze dell'ordine nei confronti del cittadino. Il Far West 2.0 per intenderci.

Un passo avanti di alcuni anni. Era il 1977 ed ero andato al cinema a vedere Un borghese piccolo piccolo, un altro film del grande Monicelli che fece discutere per la violenza del tema trattato e della crudezza delle scene mostrate. Il film, splendidamente interpretato da Alberto Sordi, Shelly Winters e Vincenzo Crocitti, racconta la storia di un amatissimo figlio (Crocitti) che viene ucciso per sbaglio durante una rapina in strada. La madre (Winters) per il dolore diventa una tetraplegica, mentre il padre (Sordi), avendo riconosciuto l'assassino, medita una furiosa e folle vendetta, lo pedina fino a catturarlo e a torturarlo a morte per giorni in una triste casupola al mare.

Ricordo bene già al cinema la gente che urlava – come nelle sceneggiate napoletane – invettive contro l'assassino e applausi alle torture, mentre alcuni di noi cercavano di “sedare” e tacere questi giustizieri improvvisati, ricordando loro che esiste una giustizia dello Stato, e che questo orrore non si poteva commettere, ma venivamo zittiti a male parole. La gente voleva la vendetta, perché la vendetta evidentemente appagava la pancia, almeno a parole...

Ecco quindi riapparire tra noi il giustiziere notturno o il piccolo borghese del grande Sordi, che riaffiorano dal passato per riaccenderci lo stesso disagio di quei tempi. Parlo ovviamente dell'omicidio di Vasto, una tragedia nata da un'altra tragedia, dove un ragazzo uccide una giovane sposa investendola mentre era sullo scooter, non fugge, affronta la giustizia ma invano perché il marito della sventurata, Fabio Di Lello, lo fredda con tre colpi di pistola dopo aver covato la vendetta per alcuni mesi. E come in un rituale da tragedia greca, dopo aver ucciso il 22enne Italo D'Elisa, si reca sulla tomba della moglie e le offre la pistola come segno del compimento della sua vendetta e come chiusura della storia, due morti, un uomo disperato in carcere per decenni, famiglie distrutte.


Da considerare poi una vera campagna d'odio sui social contro questo ragazzo investitore, che a giorni sarebbe stato incriminato di omicidio stradale, con la giustizia che avrebbe fatto bene o male il suo corso. I popoli dei social, come nelle sale dei film citati, volevano il cappio stretto intorno al collo dell'assassino, e l'hanno avuto purtroppo, finalmente appagati da questo tragico rigurgito di vomito di giustizia sommaria che libera le pance dei deboli e massacra le coscienze dei forti.