martedì 17 giugno 2014

Il delitto di Motta e il sonno della ragione

di Piero Montanari
Il caso efferato del delitto di Motta Visconti, ennesimo atto di violenza domestica con le conseguenze peggiori che si possano immaginare, si inserisce sicuramente tra i più drammatici eventi di cronaca degli ultimi anni. Penso alla strage di Erba, dove due sciagurati, per dissapori condominiali, sterminano due famiglie, compreso un bambino di pochi mesi. O al delitto di Cogne, dove il piccolo Simone viene macellato dalla madre che poi dimentica tutto, o a quello di Sarah Scazzi, strangolata e poi gettata in un pozzo come uno straccio per lavare in terra. Delitti assurti agli onori della cronaca nera non senza che la stessa indulgesse sui fatti e li spettacolarizzasse in maniera esasperante e talvolta odiosa.

Oggi purtroppo leggiamo che un padre, in una tranquilla cittadina alle porte di Milano, ha ucciso la moglie e i suoi due bambini con un coltellaccio da cucina solo perché li considerava d'impaccio tra lui e l'amore per un'altra donna. Poi, come se nulla fosse successo, si fa una doccia e va a tifare per la Nazionale con gli amici al bar.

Storie come queste evocano dentro gli animi di chi le legge i fantasmi più neri, e i peggiori sentimenti di rappresaglia e di odio, per l'autore di un fatto così agghiacciante come lo sterminio della propria famiglia, dei propri figli, da parte di chi, nella vita, dovrebbe piuttosto difenderli e prendersene cura.

Si sente invocare da molti, per lo sciagurato assassino, la pena di morte, che per altro nel nostro paese sappiamo non praticata piu da molto tempo, per fortuna. Ma invocare la pena di morte per questo atroce delitto non serve, se non a canalizzare malamente la rabbia e l'impotenza che ognuno di noi sente crescere dentro, momenti difficili nei quali il nostro stesso senso di umanità viene messo a dura prova.

Ma fare una riflessione sull'anestesia dei sentimenti davanti all'atrocità di fatti come quello di Motta Visconti, è obbligo morale di tutti noi, che siamo figli e genitori, padri e mariti. Interrogarci su questo sonno della ragione è esercizio che tutti noi dobbiamo compiere più spesso, preferibilmente senza attendere drammatiche vicende di cronaca che non possiamo, come spesso facciamo, ricondurre banalmente a meri atti dettati della follia umana.

sabato 7 giugno 2014

Di Bartolomei, c'era solo un capitano


di Piero Montanari
Ma Nino non aver paura a sbagliare un calcio di rigore, non è mica da questi particolari che si giudica un giocatore, un giocatore lo vedi dal coraggio, dall'altruismo e dalla fantasia.
(da "La leva calcistica della classe '68" di Francesco De Gregori, dedicata ad Agostino Di Bartolomei).

E Nino - Agostino, quel maledetto giorno del 30 maggio di vent'anni fa, chissà se ebbe paura di sbagliare la mira e mancare il suo cuore di uomo e calciatore generoso, quando impugnò la sua Smith & Wesson calibro 38 e mise fine alla sua vita. Di certo il pensiero gli corse al suo giovane figlio Luca, alla sua adorata moglie, ma il dolore, il male di vivere, insopportabile come un macigno sul petto, gli diede il coraggio di premere quel dannato grilletto.

E così che a soli 39 anni pose fine alla sua vita l'amatissimo capitano dell'A.S. Roma Agostino Di Bartolomei, uno scudetto e tre Coppe Italia vinte, ma anche una drammatica finale di Coppa dei Campioni persa nel suo stadio, davanti ai suoi tifosi, contro il Liverpool, proprio dieci anni prima di uccidersi, lo stesso maledetto giorno.

Di certo quella finale mancata, l'unica che la Roma giocò nella sua storia, deve aver pesato nella testa di quel ragazzo, cresciuto calcisticamente al campo OMI, vicino al quartiere periferico di Tor Marancia a Roma, dov'era nato. Agostino entrò poi nelle giovanili della Roma e fece l'esordio in prima squadra nella stagione 1972-1973, a poco più di diciotto anni contro l'Inter, a Milano, sotto la direzione tecnica di Manlio Scopigno.

Il ragazzo era bravo e taciturno, corretto e gran lavoratore e presto si guadagnò la stima e il rispetto di tutti, anche dei suoi avversari, tanto da collezionare in carriera un solo cartellino rosso, per altro, quella volta, in comproprietà con lo juventino Pietro Paolo Virdis. Divenne capitano della Roma alla fine degli anni '70 e lo rimase fino al giorno in cui la società non lo cedette, sotto l'egida del d.t. Sven Goran Eriksson. Dopo Milan e Cesena, finì nella Salernitana e fu forte il suo apporto di grande professionista alla squadra, tanto da farle raggiungere, dopo 23 anni di assenza, la serie B.

Ma è l'uomo che ci interessa, tormentato dalla tristezza della fine della sua carriera, con i riflettori che inevitabilmente si spensero sulla sua stella. A queste persone fragili basta poco, molto poco per andare in pezzi. Qualcuno disse che aveva problemi economici, altri dissero che Agostino si uccise perchè dimenticato dal mondo del calcio, qualcuno cercò anche di farlo passare per delinquente, criticando il fatto che girasse con una pistola. Nessuno ha capito veramente di cosa soffrisse Agostino. La depressione è un male semisconosciuto oggi, figuriamoci vent'anni fa, quando solo parlarne era un tabù.

Non ricordo chi lo disse, ma le persone che arrivano alla fama e al successo hanno bisogno più di altri di attenzione ed affetto, quando fama successo svaniscono, anche se sembra un paradosso. Proprio loro, che anno avuto tanto, tutto dalla vita, diventano fragili e più a rischio di tutti, come Nino-Agostino, che però non ebbe paura, quella mattina del 30 maggio 1994 a Castellabate, di tirare quell'ultimo, preciso, tragico calcio di rigore.