venerdì 31 gennaio 2014

E Marchionne urlò: evviva la FCA!


Il nuovo logo della Fiat Chrysler Automobiles (ex Fiat)
Il nuovo logo della Fiat Chrysler Automobiles (ex Fiat)


di Piero Montanari

Dal momento in cui ho visto FCA, il nuovo logo acronimo della Fiat Chrysler Automobiles, la Company fondata da Marchionne dopo aver acquisito il marchio americano, ho iniziato a fare una serie di considerazioni che vorrei socializzare.

La prima è che sembra il marchio di un prodotto farmaceutico, piuttosto che quello di costruttori di auto. Dicono che è minimalista, essenziale, maiuscolo, assertivo. Mah, direi brutto che più brutto non si poteva concepire, tanto è tristanzuolo scolorito, banale.

Ma ecco invece come lo descrive il portavoce dello studio che lo ha creato, il noto Robilant & Associati: "Nel marchio le tre lettere vivono all'interno di una raffigurazione geometrica ispirata alle forme essenziali della progettazione automobilistica: la F, generata dal quadrato simbolo di concretezza e solidità; la C, che nasce dal cerchio, archetipo della ruota e rappresentazione del movimento, dell'armonia e della continuità; e infine la A, derivata dal triangolo, che indica energia e perenne tensione evolutiva".

Una bella descrizione per cercare di ammannirci una bruttura che dovrebbe nascere dal pensiero di professionisti del bello e della comunicazione, evidentemente in crisi creativa.
Perché poi - e questa è la seconda considerazione - ci sarà pur stato in un ufficio marketing della Fiat un pubblicitario, un grafico, un usciere che abbia detto in riunione o tra i corridoi: "Guardate che FCA forse potrebbe dare adito ad una interpretazione quanto meno pruriginosa, forse sarebbe meglio che scambiaste le lettere: AFC oppure CFA, oppure togliete Fabbrica e mettete Industria." E tutti gli devono aver risposto: No, va bene così, FCA è corretto, tra la F e la C non c'è mica la "I", e poi noi del nord usiamo la "G" non la "C" per indicare quella parte lì della donna."

All'annuncio del marchio FCA si è scatenato il mondo dei media sui doppisensi che questo acronimo ha subito indotto: sul web c'è chi ha scritto testualmente: "Chissà se la FCA continuerà a fare automobili a CZO?" Un giusto interrogativo al quale dovranno dare una risposta convincente gli acuti responsabili del marketing.

Se può essere di parziale consolazione, FCA non lo vedremo dietro (sarebbe meglio dire davanti) alle automobili prodotte in Olanda, dove anche lì gira parecchia FCA, come da consueta e banale sineddoche. Resteranno impressi sulle auto i soliti marchi del gruppo in attività: Fiat, Lancia, Alfa Romeo, Chrysler, Jeep, Ram Trucks, Dodge e SRT, oltre al brand Mopar specialista in parti speciali e di ricambio. FCA lo vedremo solo sull'intestazione dei contratti, quando compreremo un auto, in fondo al libretto di istruzioni o sui progetti di rateizzazioni.

Insomma, per fortuna dietro l'auto delle nostre signore non ci sarà scritto a lettere cubitali l'equivocabile NUOVA FCA SUPER LUSSO, (magari pure 2000) che ad altro fa immediatamente pensare.

domenica 26 gennaio 2014

La vera storia di Riz Ortolani

di Piero Montanari
La morte del maestro Riz (Riziero ) Ortolani mi riporta ad una storia che ho sempre sentito raccontare nell'ambiente musicale, dai dettagli però fumosi e complessi, che riguardano il suo brano più famoso, More, colonna sonora del film Mondo cane di Gualtiero Iacopetti.

Questo film fu il capostipite di un filone di successo chiamato "mondo movie", documentari sensazionalisti che mostravano usi e costumi di varie etnie mel mondo, con la voce fuoricampo a commentare in maniera pseudo-sociologica le immagini spesso scabrose e violente di torture, donne che partoriscono davanti alla MdP per la prima volta, iniziazioni tribali e anche ammazzamenti vari. Ne seguirono altri, appunto, ma con molto meno successo del primo, che addirittura ebbe un premio al Festival di Cannes e una nomination all'Oscar nel 1963.

More, Il leitmotiv di Mondo Cane, di Ortolani e Nino Oliviero (l'altro musicista che collaborò alla stesura della colonna sonora del film) arrivò in America con la fortunata pellicola, tanto che Norman Newell, un paroliere americano, scrisse un testo e lo fece diventare una canzone che iniziò un percorso di successi a dir poco strepitoso. Venne incisa addirittura da Frank Sinatra, Nat "King" Cole, Doris Day, ma anche dall' orchestra di Kai Windig, che fece arrivare il brano al 18° posto in classifica nella Billboard Top 100 per 15 settimane, da Count Basie o dal grande pianista Errol Gardner. Insomma, divenne quello che si dice normalmente un "evergreen", un brano sempreverde, che viene eseguito continuamente nel tempo e da tanti artisti.

Il successo inatteso di More e la valanga di soldi che il brano incassava nel mondo, fece scoppiare le liti tra editori e compositori, soprattutto perché dalle altre parti del mondo i sub-editori si mangiavano la fetta più grande dei diritti, e alla Siae arrivavano briciole per i compositori italiani, Ortolani e Oliviero, ai quali si era aggiunto l'autore del testo in italiano, Marcello Ciorciolini (Ti guarderò nel cuore), che si vide scavalcato così dall'autore statunitense.

Iniziò una terribile e lunghissima causa che di sicuro minò la serenità di Riz Ortolani e di sua moglie, la cantante Katina Ranieri (la ricordo bene nelle sue apparizioni nella tv dei '60) e degli altri due autori italiani, ai quali, non ostante le nobili esecuzioni del loro brano e le vendite di dischi milionarie, arrivavano solo le briciole.

La causa si protrasse negli anni, tra acerrime battaglie di avvocati e furibonde sfuriate di Ortolani, e credo si risolse con parziale soddisfazione del Maestro, il quale però rimase molto scosso dalla storia. So per certo che ne parlava continuamente con veemenza e rabbia, e che gli comportò una sequela interminabile di viaggi negli Stati Uniti, dalla sua villa isolata sull'Aurelia, vicino al fiume Arrone.

sabato 18 gennaio 2014

Rino Gaetano, l'amico che non ci ha mai lasciato (II parte)

di Piero Montanari
Prosegue il racconto di come conobbi Rino, e l'inizio della nostra collaborazione artistica, che continuò con un tour bellissimo qualche anno dopo il nostro primo incontro presso l'Apollo Records di Vianello-Califano e la IT-Rca di Vincenzo Micocci.

Rino venne un giorno in questo "cenacolo" artistico in compagnia dell'allora mio caro amico Venditti. Tra di noi si era creata una certa stima e simpatia e ci frequentavamo spesso, in giro a far danni, o passando insieme le festività natalizie, tra casa mia al Colosseo e la sua a corso Trieste. Aveva appena fatto "Roma Capoccia" per la IT e Antonello iniziava ad avere molto successo.

Anch'io in quel momento mi affermavo come bassista e come arrangiatore, quindi venne automatico che, una volta avuto l'ok da Vincenzo Micocci per produrre il 45 giri di Rino, Antonello ed io entrassimo in sala di registrazione collaborando insieme alla sua realizzazione. Ci avvalemmo della consulenza di Aurelio Rossitto, il fonico dello "Studio 38" e proveniente dalla "scuola" dell'RCA e lo coinvolgemmo nella produzione dei due brani. Infatti I love you Maryanna/Jacqueline, 45 giri di Kammamuri's - Rino Gaetano, esce prodotto da RosVeMon, che poi sarebbe l'acronimo di Rossitto-Venditti e Montanari.

Chiamammo a suonare alcuni musicisti, ed il coro delle Babayaga, un gruppo di promettenti ragazze della Rca che all'epoca si prestavano per cantare in molti Lp di artisti in scuderia. Feci l'arrangiamento dei brani, suonai il basso e le chitarre e Venditti il pianoforte. Antonello portò anche uno zampognaro che veniva per le feste di Natale sotto casa sua, e gli facemmo suonare la zampogna, peraltro stonatissima che, se ci fate caso, entra ed esce ogni tanto dall'arrangiamento (molti credono si tratti di un arcaico sintetizzatore).

C'era un'atmosfera divertita e surriscaldata. Si scherzava e si rideva molto e Rino era straordinariamente naïf e simpatico, come sempre. Sinceramente non sapevo perché si volesse chiamare Kammamuri's piuttosto che Rino Gaetano, ma doveva essere una delle sue tante piccole follie, molte delle quali poi si rivelarono a posteriori genialate musicali e lessicali, quasi fossero intuizioni e pensieri premonitori di quello che sarebbe stata la società civile nei futuri decenni. Ora lo possiamo affermare con forza, allora pensavamo ad un gioco simpatico di un folletto che inventava filastrocche da "castigat ridendo mores".

Rino stette fermo un po' di tempo per scrivere e riflettere dopo quel primo 45 giri che passò quasi inosservato. Non ebbe molto successo nemmeno il seguente Lp "Ingresso Libero" e dovette aspettare il grande colpo di "Ma il cielo è sempre più blu" del 1975 per affermarsi definitivamente. Nel 1978 andò in Messico con Giacomo Tosti, dove la RCA aveva inaugurato i nuovi studi e servivano personaggi noti per reclamizzarli, e ritornò con "Ahi Maria", ed il suo 33 giri mexican-mariachi molto divertente.

Volle fare un tour estivo promozionale l'anno successivo (1979) e mi chiese di entrare nella band. Mi disse che desiderava lavorare con tutti musicisti che, in qualche modo, avessero contribuito al suo successo. Alla batteria c'era Massimo Buzzi, alle chitarre Nanni Civitenga, io al basso e Rino alla chitarra acustica. Riproponemmo praticamente tutti i brani che avevano reso unico Rino, da "Berta Filava" a "Gianna", "Ma Il Cielo è Sempre più Blu" a "Aida", da "Mio Fratello è Figlio Unico" a "Nuntereggae Più" a "Spendi Spandi Effendi". Il road manager era l'amico Franco Pontecorvi, che poi ho avuto modo di rivedere e con il quale si è riparlato dei bei tempi con Rino, perché abita vicino a me, sui Castelli Romani.

Rino era un personaggio semplice ed ironico, tenero e spontaneo con una gran voglia di essere in qualche modo diverso dagli altri cantautori, ed affermare questa diversità con la sua arte, nella quale credeva moltissimo, anche se a me sembrava di una semplicità, eccessiva, quasi disarmante. Poi capii che la sua ironia e il non-senso dei quali le sue canzoni erano intrise, fecero una mistura esplosiva la cui detonazione è arrivata fino a noi oggi, facendo innamorare della sua musica le generazioni successive che adorano Rino letteralmente.

Il ritratto tracciato dalla fiction della Rai fa di Rino un depresso e alcolista, cosa vera solo in parte. Gli piaceva bere, fare un po' il "ragazzaccio", ma non mi risulta ai livelli che ci hanno raccontato gli sceneggiatori della storia. Ho conosciuto il bravissimo attore che lo ha rappresentato così fedelmente, Claudio Santamaria, ed anche lui sostiene la stessa cosa, e cioè che Rino era godereccio ma non nella maniera distorta rappresentata nel film.

A luglio del 2009 c'è stata una serata celebrativa su di lui al Parco di S. Sebastiano, a Roma dove è intervenuta, oltre a Giancarlo Governi con il suo "Ritratto di Rino Gaetano", anche sua sorella Anna ed il gruppo di suo nipote, che fa le cover dei suoi brani. Per l'occasione ho cantato "I love you Maryanna" che, finalmente e grazie alla sorella Anna, ho saputo non fosse dedicata alla marijuana ma alla nonna Marianna alla quale Rino era molto affezionato.

mercoledì 15 gennaio 2014

Rino Gaetano, l'amico che non ci ha mai lasciato

di Piero Montanari
Oggi Rino Gaetano, il mitico cantautore crotonese, se non avesse incontrato quel maledetto camion Fiat 650D sulla corsia opposta alla sua sulla via Nomentana di Roma, alle 4 del mattino del 2 giugno 1981, ma soprattutto, se non fosse stato rifiutato da ben cinque ospedali - seppur prontamente soccorso - sarebbe ancora con noi, a deliziarci con le sue magiche filastrocche apparentemente "non sense". Rino purtroppo non c'è più ma fortunatamente di lui vive il ricordo dentro di me, presente e lancinante. Ho avuto con lui una storia di amicizia e professionale, che racconto inserendola nell'ambiente nel quale la sua particolare personalità artistica si è formata ed è esplosa. La sua morte prematura ce lo ha consegnato - a distanza di oltre trent'anni - mito dei nostri tempi, immortale e trasversale per tutte le culture e per tutte le generazioni, riscoperto da una moltitudine di ammiratori che lo adorano letteralmente. Molte persone sui social mi scrivono chiedendomi notizie di Rino, della sua vita privata, delle sue passioni, delle sue emozioni. Spero che questo racconto in due parti (pubblicherò in seguito la seconda) soddisfi la curiosità che questo straordinario personaggio ha animato nel cuore di tante persone che lo amano.

Nei primi anni '70 ero un assiduo frequentatore del Folkstudio, quando da Via Garibaldi si spostò a Via Gaetano Sacchi, sempre nel rione Trastevere e quando Giancarlo Cesaroni lo rilevò dal fondatore Harold Bradley, artista pittore e musicista. Il locale era un cantinone con ampi spazi (probabilmente un ex magazzino o bottegone di artigiano) dove c'era un grande ingresso ed una bella sala piena di vecchie sedie con il palco per esibirsi. Un luogo assolutamente grezzo e spoglio, come si usava all'epoca, dove la sostanza della proposta artistica prevaleva su quella estetica, cui non fregava nulla a nessuno.

Pareti ricoperte di iuta, tavolacci di legno per bere e panche sconnesse per sedersi. Sedie impagliate, faretti, manifesti alle pareti di artisti di riferimento, compreso Bob Dylan che vi si esibì nel 1962 di passaggio a Roma per andare a trovare la sua ragazza a Perugia. Si racconta che c'erano non più di 15 persone, ma questa è storia conosciuta. C'era una programmazione che combinava Jazz e musica folk, cantautori esordienti, i festival di jazz&folk a millecinquecento lire consumazione compresa. Tutti eravamo spettatori e protagonisti di volta in volta. Là ho suonato con jazzisti famosi e con cantanti esordienti solo per il gusto ed il piacere di esserci anch'io, non certo per soldi. Non esisteva a Roma ma nemmeno in Italia un altro locale così, ricco di speranze artistiche e politiche, pieno di energie nuove e rivoluzionarie, proprie del momento storico che stavamo vivendo.

Il Folkstudio vide un lento declino col cambiare delle cose. Probabilmente vinse su tutti i cambiamenti epocali, il "pescivendolo" che abitava sopra al locale, personaggio e spauracchio mitico, forse inventato da Giancarlo Cesaroni per farci abbassare il volume della musica. Non lo sapremo mai.

Roma in quel momento sembrava essere diventata il centro della discografia italiana, brulicava di iniziative e di personaggi più o meno validi, folli e strampalati in cerca di fortuna e visibilità, studi di registrazione, e la grande mamma RCA pronta ad accogliere, sperimentare, lanciare o buttare via. Sempre nei primi anni '70 eravamo uno sparuto gruppo di musicisti esordienti che cercavano opportunità lavorative (Roberto Conrado, Luigi Lopez, Loredana Bertè e la sorella Mia Martini, Renatino Zero, Amedeo Minghi, Antonello Venditti, Francesco De Gregori, Mimmo Locasciulli etc).

Suonavo nei concerti con Romano Mussolini e Tony Scott, ma mi piaceva anche molto la musica pop ed avevo il pallino di diventare un turnista in sala di registrazione. L'opportunità ci venne data dall'apertura di una di queste, lo "Studio 38" a via Guido Banti, nel quartiere 'chic' di Vigna Clara, con annessi uffici di una nuova etichetta discografica, la Apollo Records di Vianello (con il quale mi esibivo in tour) e Califano. Fortuna volle che l'altra parte degli uffici venne occupata dalla IT di Vincenzo Micocci (...Vincenzo io t'ammazzerò/ perché sei troppo stupido per vivere/ gli cantava "gentilmente" Alberto Fortis, per essere stato da lui ignorato come artista. ).

Mi sentii "come un pisello in un baccello" perché incominciai ad essere chiamato a suonare da tutti. Infatti iniziai con De Gregori (Alice non lo sa) proseguendo con Minghi (album Amedeo Minghi), Edoardo De Angelis, Renato Zero (No mamma, no, però nei grandi studi dell'RCA, alla quale sia la It che la Apollo erano affiliate), Rino Gaetano (I love you Maryanna) che produssi anche. Ma anche tanti altri come: Edoardo e Stelio (Lella), Daniela Goggi, I Vianella (Semo gente de borgata) etc. Insomma, quel posto era il fulcro dell'attività di molti giovani esordienti musicisti.

Ovviamente, considerate le giovani età e l'inesperienza, le sedute di registrazione spesso erano totalmente disorganizzate. Ricordo il primo giorno che ci riunimmo per registrare Alice non lo sa, nella più assoluta ingenuità eravamo solo in tre: Francesco De Gregori, il fonico Aurelio Rossitto ed io. Dissi a Francesco che sarebbe stato meglio chiamare qualcun altro, un batterista ed un chitarrista. Feci un po' di telefonate e nel pomeriggio si presentarono Massimo Buzzi e Jimmy Tamborrelli, cosicchè potemmo iniziare a lavorare sui brani. Ovviamente non c'erano direttori o arrangiatori, quindi ognuno di noi si prodigava ad organizzare la seduta e a mettere a posto i brani musicali. Spesso scrivevo le parti per gli altri musicisti ed inventavo l'arrangiamento, senza che questo fosse generalmente riconosciuto economicamente o, magari, ricordato nei crediti del disco. Ma allora funzionava così... (fine prima parte)

I vecchietti che salvano la serie A

di Piero Montanari
Se lo sport è metafora della vita, il calcio probabilmente ne è la rappresentazione più intensa, più popolare e più affascinante. Anche chi non ama questo sport o lo segue marginalmente, può cogliere in esso aspetti umani di straordinaria intensità drammaturgica.

Come la sfortunata storia del giovane talentuosissimo attaccante della Fiorentina e della Nazionale Italiana, Giuseppe "Pepito" Rossi, costretto per la terza volta, nella sua pur breve carriera, a fermarsi per un incidente grave al suo ginocchio destro, già operato tre volte, mentre stava disputando il derby toscano contro il Livorno due giorni fa. Forse si dovrà operare di nuovo, fermarsi per più di tre mesi. A rischio non soltanto la presenza al prossimo campionato mondiale ma anche la sua carriera.

Storie tristi e storie edificanti, come l'incredibile percorso esistenzial-professionale di tre "vecchietti" del pallone che, con la loro classe e capacità di superare l'età anagrafica, riescono a giocare ancora a livelli stratosferici e ad incidere fortemente nel campionato in corso. Inimmaginabile fino a qualche decennio fa, che si smetteva a trent'anni, e la durata della loro vita calcistica ad altissimi livelli sembra non finire mai. Eccoli i tre anziani moschettieri dell'italico pallone:

Francesco Totti (Roma, 27 settembre 1976) 38 anni da compiere, se gioca lui la Roma si illumina della sua luce, del suo talento, delle sue invenzioni di prima intenzione, dei suoi passaggi "no look" che incantano i tifosi e i cultori del bel calcio. Se gioca lui la partita diventa uno spettacolo di alta classe. Da poco rientrato dopo un infortunio piuttosto serio e con i tempi di recupero allungati causa età, contro la fortissima Juventus non ha potuto brillare come al solito. Sta comunque rimettendosi e c'è da credere che presto tornerà quello delle dieci vittorie consecutive e delle diciotto partite utili della Roma. Come farà il C.T. Prandelli a non portarlo al Mondiale?

Luca Toni (Pavullo nel Frignano, 26 maggio 1977) 37 anni, messo da parte per un periodo da tutti, quest'anno in forza alla cadetta Verona Hellas sembra rinascere, non ostante l'età e segna sempre (contro l'Udinese seconda doppietta consecutiva, 9 gol totali) caricandosi sulle spalle la sua squadra, rivelazione di questo campionato 2013-14. Se continua così sarà difficile per Prandelli non portarlo al Mondiale.

Miroslav "Miro" Klose (Opole, 9 giugno 1978) 36 anni, è il più giovane dei "vecchietti". La Lazio non sta certo brillando in questo campionato, la squadra ha avuto problemi seri col suo allenatore, allontanato dalla Società, col ritorno in panchina del vecchio Reja. La partita contro l'Inter era ricca di significati, bisognava vincerla. E chi ci pensa a dare la vittoria alla Lazio? A nove minuti dalla fine di una partita piuttosto scialba, ecco il guizzo di un grande campione che al volo segna uno dei suoi grandi gol, confermando l'importanza assoluta della sua presenza nella squadra, e tutto sempre non ostante il suoi 36 anni.

Anche se il declino inesorabile è ad attenderli là, dietro l'angolo, fanno bene al cuore le storie di uomini che, con la forza della loro passione, insegnano a non mollare mai, in barba alla loro età.