mercoledì 30 ottobre 2013

Ignazio Marino, se la Roma vince lo scudetto mi spoglio


di Piero Montanari 

Leggo con terrore e raccapriccio un'agenzia di stampa su un'affermazione fatta oggi dal sindaco della Capitale che dice testuale: Calcio, Ignazio Marino: "Se la Roma vince lo scudetto mi spoglio. Ma non parliamone troppo perche' i tifosi sono scaramantici e secondo me gia' stanno facendo gli scongiuri".

Se n'è uscito con questa dichiarazione a Rai Radio 2, ospite del programma condotto dal comico Max Giusti, dopo essere arrivato con la sua bici elettrica e l'incazzatissima scorta dei motociclisti al seguito, sempre costretti, per la scarsa velocità del mezzo del sindaco, a viaggiare in prima marcia con le moto che fondono un giorno si e uno no, ad aumentare il lavoro del meccanico comunale, che già ebbe problemi seri col motorino di Rutelli. "Aspettamo c'ariva 'a giannetta (il freddo romano, ndr), vojo vede se pija 'a bicicletta, questo!" - pare abbia detto a mezza bocca uno della scorta.

Sapere che Marini fosse tifoso della A.S. Roma è stata una sorpresa. In realtà si rivelò giallorosso "tiepidino" (forse per non offendere troppo la parte di fede laziale della città, chissà?) il giorno del derby Roma-Lazio del 22 settembre scorso, quando disse: "Tifo Roma perché Guido, il mio miglior amico, è romanista e quando gioca la Roma se dobbiamo incontrarci, non si può fare!" Davvero una dichiarazione di appartenenza ad una squadra ricca di significati forti.

Eppure il 'sindachirurgo dem' è il 1° primo cittadino da vent'anni a questa parte a tifare per la Roma, dopo il laziale Rutelli e lo juventino Veltroni. Per i romanisti potrebbe anche essere cosa buona e giusta, un punto d'onore, se non fosse per questa disgraziata dichiarazione dello striptease in caso di scudetto giallorosso.

Ho ancora nella mente il ricordo della delusione che provai il 17 giugno del 2001, quando Sabrina Ferilli, avendo fatto la stessa promessa di Marino, apparve al Circo Massimo per festeggiare lo scudetto della Roma di Fabio Capello, dentro una tutina color rosa carne, attillatissima in verità, ma sempre di tutina si trattava.

Ora, anche se mi professo tifoso volteriano illuminista, non posso fare a meno di esercitarmi in gesti apotropaici di vario tipo, per le dichiarazioni sconsiderate del sindaco. Ma non tanto per la questione dello scudetto, che a questo punto della storia è argomento debole, ma per il rischio di veder Ignazio Marino il 19 maggio 2014, ultimo giorno del campionato di serie A, girare nudo, magari in tanga rosa e sulla sua bicicletta elettrica d'ordinanza per le strade di Roma, scortato dai suoi due motociclisti ancora più incazzati.

sabato 26 ottobre 2013

Augusto Odone e l'olio di Lorenzo, un'infinita storia d'Amore

di Piero Montanari
Ve lo ricordate un film americano del 1998 con Nick Nolte e Susan Sarandon, intitolato L'olio di Lorenzo? Era la storia vera e toccante di un bambino di sei anni, Lorenzo Odone, a cui dopo un viaggio alle Isole Comore con i suoi genitori, venne diagnosticata una malattia degenerativa rarissima quanto terribile, l'Adl, che sta a siglare il nome scientifico di Adrenoleucodistrofia.

Questa malattia colpisce e distrugge inesorabilmente la guaina mielinica che riveste i nervi, degenerando prima le funzioni motorie e poi quelle psichiche di chi ne viene colpito, con un'aspettativa di vita brevissima.

Augusto Odone, il papà di Lorenzo, un economista della World Bank, decide che questa aspettativa di vita breve del suo amato Lorenzo - due soli anni - deve essere combattuta con tutte le sue forze: non accetta la condanna a morte ed inizia a dedicare la sua vita per cercare una soluzione e trovare una cura per suo figlio.

Abbandona così la sua attività di economista e si immerge in questa avventura apparentemente impossibile, iniziando a consultare testi scientifici, sostenuto dalla disperazione per una sentenza di morte che non vuole accettare. Disperazione e dolore lo spingono a cercare rimedi al di là della medicina convenzionale che aveva già gettato la spugna decretando l'inesorabile condanna del figlio.

Un giorno gli sforzi sovrumani di Augusto sembrano essere giunti ad una svolta, attraverso una scoperta assolutamente empirica: un composto derivato da due tipi di olio, l'olio di colza e l'olio d'oliva, sembra essere efficace ed in grado di fermare la degenerazione delle cellule dei tessuti che ricoprono i nervi del povero Lorenzo.

La comunità scientifica, come spesso accade in casi simili, insorge contro Augusto Odone e contro questo nuovo preparato che intanto l'amorevole papà inizia a somministrare al figlio, con risultati che sembrano dargli ragione. Uno dei più ferventi detrattori di Augusto Odone è il neurologo Hugo Moser della Johns Hopkins University il quale, anni dopo, dovrà ricredersi perché l'olio di Lorenzo funzionava davvero.

Lorenzo poi è morto di polmonite nella sua casa di Washington, ma non dopo due anni, bensì dopo ben 25, amorevolmente assistito e curato da questo straordinario padre, mentre sua madre era morta addirittura prima di lui, colpita da un tumore nel 2000.

Oggi anche Augusto Odone se n'è andato ad 80 anni, a conclusione di questa malinconica, tristissima storia di sconfinato amore paterno che tanto di buono ci racconta. Una cosa su tutte certamente: come l'Amore, "condito" con un po' d'olio di colza e un po' d'olio d'oliva, possano compiere un miracolo straordinario.

martedì 22 ottobre 2013

Scompare il Maestro Gianni Ferrio

di Piero Montanari

Quando mio padre comprò il primo apparecchio televisivo, una bestia dal nome imponente, Royal Eagle, 150 chili, con chassis in radica di noce, era il 1954, la Rai radiotelevisione italiana trasmetteva regolari programmi su un solo canale da pochi mesi, e il Maestro Gianni Ferrio era già lì a dirigere l'orchestra, per quelli che divennero programmi storici come: Bambole non c'è una lira, Milleluci, Senza rete.

In uno di questi - nella prototelevisione del mesozoico inferiore - sua moglie, la ballerina ed attrice Alba Arnova, si presentò con una calzamaglia rosa che ricordava impudicamente la pelle nuda. Il cielo si aprì e, in quell'Italia bigotta dove lo spettacolo veniva sostanzialmente gestito dal Vaticano, la bella soubrette venne definitivamente espulsa dalla Rai e mai più ne fece ritorno.

L'amministratore delegato dell'epoca Filiberto Guala (che poi prese i voti, tanto per capire a chi eravamo in mano) stilò addirittura un codice di autodisciplina dove le calzamaglie delle ballerine dovevano essere drasticamente scure o, al massimo dell'eros, a righe, le parola "membro del parlamento" o "in seno all'assemblea" sparire dal linguaggio televisivo (per via di "membro" e "seno") Figuramoci.

Gianni Ferrio era già là quando si accese per la prima volta il televisore di casa mia, con la sua classe e il suo 'aplomb' da gentleman di altri tempi, a deliziarci con le sue orchestre dirette e le sue canzoni per la televisione, che poi, più in là, divennero delle hit di successo che tutta l'Italia canticchiava: Parole parole parole, Non gioco più di Mina, Quando mi dici così, sigla di Speciale per noi e cantata da Fred Bongusto, che lanciò la sospirosa Minnie Minoprio che gli ballettava intorno già mezza scosciata (l'integralista cattolico Guala era stato mandato via). Ma anche: Non gioco più, brano elegante cantato dall'onnipresente Mina, e punteggiato dalla straordinaria armonica a bocca del grande Toots Thielemans.

Una carriera brillante quella del Maestro Ferrio, ricca anche di tante colonne sonore per il cinema, svariando dai film di Totò, ai cosiddetti "spaghetti western", passando anche per qualche Emmanuelle o qualche Poliziotta, scritte per quel cinema oggi riscoperto ed idolatrato da tanti appassionati.

Ferrio è stata una presenza costante, come si dice, nell'immaginario collettivo dell'Italia del boom economico, immaginario sovente indotto e pilotato proprio da quella televisione con un solo canale e con un forte codice etico e morale, in attesa del secondo canale Rai a sparigliare i giochi.

Oggi se ne va a 88 anni quel discreto e garbato signore che aveva un grande, grandissimo talento musicale, a cui, unitamente alle ormai dismesse orchestre della Radio e della Televisione Italiana che diresse così bene, tributiamo un ultimo ideale inchino.

domenica 6 ottobre 2013

Lizzani come Monicelli, un ultimo disperato gesto.



di Piero Montanari
Mi colpisce la morte di Carlo Lizzani, per le modalità praticamente identiche a quelle di un altro grande regista italiano suicidatosi come lui, Mario Monicelli. Una connessione tragica di storie simili quella loro, per carriera, età e disperazione.

Novantuno anni Lizzani, novantacinque Monicelli. Mario se ne andò gettandosi dal quinto piano del reparto urologia del San Giovanni di Roma, dove era ricoverato per un tumore alla prostata in fase terminale. Conoscendo la persona che era, ci avrà pensato un secondo a farla finita. Era un uomo con un grandissimo rispetto di se, e il solo pensare di finire i suoi giorni in un letto d'ospedale deve averlo fortemente motivato per quell'ultimo tragico gesto.

Lizzani non mi risultava stesse male, ma possiamo immaginare che i suoi novantuno anni gli devono essere pesati come un macigno, se ha deciso di gettarsi dal balcone del terzo piano della sua casa di via dei Gracchi, in Prati.

Una sorte tragica che accomuna due grandi registi, due straordinari artisti, nello stesso modo disperato e teatrale di morire, fa pensare fortemente a qualcosa che non funziona nella vita e nella società stessa che spesso, troppo spesso dimentica con facilità personaggi che fanno parte della nostra storia, relegandoli nell'oblio, invece di star loro vicino nei momenti più difficili.

Immagino tutti e due, Monicelli e Lizzani, nella solitudine delle loro vecchiaie e delle loro malattie, ricordare la straordinaria avventura delle loro vite vissute con pienezza e successo - che pochi fortunati possono vantare - e nell'insopporabilità di un triste presente e di un futuro certamente breve e doloroso là ad attenderli, porre fine alle loro vite in un ultimo, disperato gesto di gloria.