mercoledì 29 maggio 2013

Little Tony rock, pupe e motori


Toronto, 1965 Little Tony e i Fedeli (io il primo a sx nella foto)
Toronto, 1965 Little Tony e i Fedeli (io il primo a sx nella foto)

di Piero Montanari
Quando nel 1965 Tony mi volle a suonare il basso elettrico nel suo gruppo, mi sentii come il giovane calciatore che viene ingaggiato per giocare con la sua squadra del cuore in serie A.
A quell'epoca Tony era il mio mito, ed il mito di una schiera di fan che si infittiva ogni giorno. Per noi musicisti emergenti i riferimenti musicali erano davvero pochi all'epoca: Tony a Roma e Celentano a Milano. Claudio Villa e suoi epigoni non volevamo neanche vederli fotografati, con i Beatles che si affacciavano in quel momento e la cui portata musicalmente devastante e rivoluzionaria non era neanche immaginabile. La prima volta che vidi una loro foto da quasi sconosciuti, mostratami da un compagno di liceo che era stato a Londra, mi misi a ridere e gli dissi: "Ma 'ndo vanno questi co 'sti capelli?" Avevo capito tutto.

Frequentavo da intruso pieno di aspettative la casa discografica romana di Tony, la Durium, a via S. Martino della battaglia, nel cuore della Roma umbertina. Era diretta dall'ingegner Caruana, e nella palazzina a due piani si consumavano ogni giorno jam session di rock'n roll e progetti di canzoni da scrivere, suonare e registrare, e io ogni tanto mi infilavo, in attesa del mio turno. Poi arrivava Little Tony rombante con la sua Ferrari e il suo ciuffo scompigliato, e noi in adorazione perché, oltretutto, interpretava anche perfettamente il modello di maschio vincente della nostra generazione un po' cogliona: auto sportive, le donne, la fama, il mito del successo e dei soldi. E poi "Il ragazzo col ciuffo" era anche belloccio, come racconta appunto questo suo primo grande successo dopo la parentesi inglese, e l'appellativo gli rimase incollato a vita, anche quando il ciuffo gli divenne bianco e poi tinto.

Di lì a poco le mie aspettative e la mia intraprendenza furono premiate, e iniziai un tour con lui, che per l'occasione aveva litigato per l'ennesima volta con i suoi amati e conflittuali fratelli, Enrico chitarrista eccellente ed Alberto, bassista.
Il gruppo divenne così "I Fedeli di Little Tony" e girammo per due anni suonando R&R e R&B tra Stati Uniti, Canada, Europa e Italia in lungo e in largo. Facemmo anche varie apparizioni in tv e un film 'musicarello', Un gangster venuto da Brooklyn, col grande Akim Tamiroff che ogni tanto ancora oggi passano di notte.

Poi ci si divise come spesso accade nei gruppi musicali, e Tony tornò a suonare con i fratelli. Ma ci si incontrava casualmente, ogni tanto.
In uno di questi incontri, un viaggio aereo Roma-Milano, erano passati più di vent'anni da quei giorni e anche molta politica e ideologia, tra '68 e femminismo, cose con le quali avevo fatto i conti. C'era Tony ed io ero con un altro "grande" degli anni '60, Don Backy. Subito loro iniziarono a raccontarsi dei vecchi Cantagiro, Festivalbar, Saint Vincent, e Tony inizia subito a parlare di quante donne avesse in quel periodo e di com'era bella la vita tra auto sportive e lusso sfrenato. Ricordo che mi infastidì ritrovare lo stesso ragazzo di vent'anni prima, semplice e non cresciuto idealmente, e così iniziai nei suoi confronti un pistolotto rompiscatole ideologico e moralista, sul femminismo, sulla coscienza collettiva, il '68, le rivolte studentesche, sul fatto che lui era rimasto attaccato a quel clichè vecchio e stantio.
Mentre l'aereo scendeva e io parlavo senza sosta, rimase zitto ad ascoltarmi per venti minuti, e quando mi tacqui disse: "A Pierì, ma che stai a dì, ma mica l'ho capito bene che m'hai raccontato!"

lunedì 20 maggio 2013

Carlo Monni, l'ultimo caratterista


di Piero Montanari
Anche Carlo Monni se n'è andato, colpito da un male che non gli ha lasciato scampo e del quale era affetto da tempo. Di sicuro la sua bella faccia barbuta era più famosa del suo nome stesso, come accade sovente per tanti attori della sua genia.

Monni era uno degli ultimi grandi attori caratteristi del nostro cinema, venuto su dalla "scuola toscana" degli attori stradaroli, quelli delle feste di piazza paesane, dei teatri di provincia, dei localini della sua zona, Campi Bisenzio, lungo la valle dell'Arno, luoghi nei quali spesso amava dedicarsi alla straordinaria arte del verseggiare libero, fiore fantastico della tradizione popolare toscana, e specialità della quale Carlo era un vero Maestro.

L'incontro fatale per il Monni fu quello col grande Roberto Benigni, il Re indiscusso di tutti i toscanacci in circolazione, col quale strinse un lungo, fattivo sodalizio umano e artistico, che lo fece approdare, agli esordi importanti nel 1976, in Rai, nella storica trasmissione che vedeva i due artisti trasmettere da una stalla con tutte le vacche intorno. Si chiamava "Ondalibera", meglio nota come "Televacca", con un Benigni straordinario nel suo Mario Cioni, e il valletto Carlo Monni, il vaccaro Monna, che spesso imbracciava maldestramente una telecamera a mano.
Benigni e Monni non si lasciarono più da quel momento: li vedremo ancora insieme in Berlinguer ti voglio bene di Giuseppe Bertolucci, o in Tu mi turbi, di Roberto Benigni, o in Non ci resta che piangere, con la regia dello stesso Benigni e del grande Massimo Troisi.

Ma il cursus honorum di Carlo Monni si avvale di partecipazioni in film girati dai più grandi registi italiani: da Monicelli a Bevilacqua, da Nuti a Gianni Amico, da Paolo Virzì a Tinto Brass, in una sequela di personaggi magistralmente interpretati che lo facevano essere uno degli attori più duttili e bravi del nostro cinema.

Spesso erroneamente si tende a sminuire la figura cinematografica del caratterista o spalla, ruolo del quale - come dicevamo - Monni era maestro unico e forse ultimo. Si pensa che il caratterista sia un attore "minore" rispetto a quelli che assumono i ruoli principali, un attore di secondo piano, meno importante, quello che dà le battute al primo attore per fargli fare la 'gag' e suscitare l'larità del pubblico. In realtà la storia del teatro di rivista italiano, e poi del cinema, ci ha rivelato una serie di grandissimi attori spalla ai quali i Totò, i Macario, Fabrizi, ma anche Villaggio, Benigni, Troisi si appoggiavano per esercitare la loro vis comica, da cui il nome "spalla", ma che erano essi stessi straordinari al pari del protagonista. Anche grandi e celebri attori internazionali, in vecchiaia, proseguono la loro carriera interpretando dei caratteri con successo.
Era quello che faceva magistralmente uno degli ultimi grandi interpreti di questa scuola, ormai in declino: Carlo Monni.

domenica 12 maggio 2013

Paola Ferrari: quando la satira colpisce al cuore

di Piero Montanari
Anche Globalist si è occupato in questi giorni della polemica sollevata dalla conduttrice de "La domenica sportiva", Paola Ferrari, per essere stata attaccata nell'ambito di uno spot anti femminicidio da Paola Cortellesi che lo ha interpretato e scritto con Serena Dandini.
Nel video la Cortellesi impersona, con la sua consueta bravura, una donna di umili origini uccisa dal suo uomo che, dall'aldilà, ripropone alcuni momenti delle violenze subite, ricordando i momenti passati col suo assassino: "«Meglio morta - dice tra le altre cose - che guardare un'altra Domenica Sportiva con l'illuminata, la presentatrice piena di luce che pare la Madonna, quella bionda che dice i risultati con le labbra con il rossetto forte e gli orecchini di lampadario, che a lui piace tanto, invece a me faceva proprio schifo".

La replica della Ferrari è stata davvero quella di una persona che se l'è presa: "Le parole di Paola Cortellesi contro di me sono state come una coltellata (in nomen omen... "cortel lesi" ). Un atto di violenza verbale inaudito, soprattutto considerando il contesto in cui e' stato espresso, all'interno di uno spot a difesa delle donne".
In effetti anche a noi l'attacco alla conduttrice è sembrato piuttosto forte, considerato proprio il contesto nel quale si è svolto, ma vorremmo comunque suggerire alla Ferrari di non prendersela in maniera così accorata; la satira, da Aristofane in poi, deve far arrabbiare fortemente chi ne è bersaglio, altrimenti è inutile, e deve necessariamente toccare corde che mettono in ridicolo e che mostrino le contraddizioni della società e delle persone, per promuoverne addirittura il cambiamento: quindi, a conti fatti, porta con sè il bene della "fustigazione dei costumi".

E ora, cara Paola Ferrari, non dire però che non ti avevamo avvisata e consigliata. Nel nostro pezzo del 23 dicembre 2012 che ti rigurdava, scrivemmo: "Ieri sera, puntata n° 2.500 ed oltre, ho capito davvero di essere a Natale vedendo il vestito di Paola Ferrari, l'attuale conduttrice del programma che, per come era addobbata, non lasciava alcun dubbio sulle prossime festività. Ci mancavano solo le palle appese." Ma anche: "Ieri sera, vestito dorato, cosce sovraesposte, chioma biondissima, labbra ipertrofiche, trucco dato con la cazzuola (da rischiare un ulteriore allargamento del buco dell'ozono) e le solite, incredibili luci giallo paglierino su di lei che la fanno sembrare una apparizione mistica, Nostra Signora del Pallone, l'eccesso sembrava aver raggiunto, almeno per il 2012, il suo massimo storico." E le consigliavamo, simpaticamente, un po' più di sobrietà ma, purtroppo per lei, non ci ha ascoltato.

Cara Paola, non prendertela più di tanto, meglio satireggiati che dimenticati. E poi ti rammentiamo, per lenire un po' il tuo dispiacere, una sentenza della prima sezione penale che ha fatto giurisprudenza riguardo la satira e le sue conseguenze, che dice appunto: "E'quella manifestazione di pensiero talora di altissimo livello che nei tempi si è addossata il compito di castigare ridendo mores, ovvero di indicare alla pubblica opinione aspetti criticabili o esecrabili di persone, al fine di ottenere, mediante il riso suscitato, un esito finale di carattere etico, correttivo cioè verso il bene." 

mercoledì 1 maggio 2013

Luigi Preiti, ovvero: la vendetta dei "poveri cristi"

di Piero Montanari
"Il sonno della ragione genera mostri" è il famoso titolo di un'acquaforte di Francisco Goya che da almeno una quarantina d'anni ogni tanto ci piace citare, forse per il suo contenuto tragico che riesce a condensare in poche parole l'orrore che scaturisce dall'incapacità di esercitare il pensiero in maniera corretta. "Il quadro del 1797 - come cita l'enciclopedia - rappresenta un uomo addormentato (probabilmente Goya stesso) mentre prendono forma, attorno a lui, sinistri uccelli notturni, inquietanti volti ghignanti e diabolici felini che, come suggerisce il titolo, sono il parto della sua mente."

Il riferimento di questo quadro va subito collegato agli ultimi accadimenti tragici che hanno visto l'attentatore Luigi Preiti fare quasi una strage davanti a palazzo Chigi il primo giorno del governo Letta. Ora c'è un uomo, un carabiniere in servizio, che rischia la paralisi. "E' un pazzo, uno squilibrato" - si dice in prima analisi con un sospiro di sollievo, come se il dramma non fosse lo stesso - no, invece, non è pazzo, è una persona normale disperata come tante, colpite dagli eventi drammatici che in questi ultimi tempi si susseguono senza tregua: disoccupazione, perdita del lavoro, mancanza di riferimenti politici, fame e conseguente fine della vita sociale.

E qui ci torna l'ansia del "normale" dell'uomo qualunque che compra una pistola quattro anni prima, si fa prestare i soldi dalla madre per il biglietto, se ne parte col treno da Rosarno (RC) per far fuori quanti più politici possibile (aveva un centinaio di pallottole 7,65) "questi bastardi, corrotti, affamatori, che aumentano le tasse, si rubano i soldi nostri, non creano lavoro, fanno la bella vita alle nostre spalle, hanno auto blu, donne bellissime, vita di lusso" e invece trova due poveri carabinieri in servizio e, non avendo altro contro cui rivolgere l'arma, spara a loro, in qualche modo rappresentanti dell'odiato stato.

Sento dire che la possibile causa di tutto questo non è il clima di odio e di violenza verbale che si è accanito nel paese, un vento di terrore seminato dai fortissimi contrasti politici, con la virulenza di parole usate come macigni contro le persone 'che non ci piacciono', piuttosto la tragica miopia della politica che non è riuscita ad interpretare le istanze di una popolazione profondamente abbattuta dalla crisi internazionale, e il conseguente sfascio civile e etico della nostra comunità di cittadini.

"In questi momenti drammatici abbiamo il dovere di dire le cose per come sono: la miseria, lo smarrimento e la disperazione uccidono, non le parole" , sostiene nel suo editoriale su Globalist di oggi Gianni Cipriani. Ma le parole possono armare, come poi hanno fatto, la mano dei Luigi Preiti di turno, dico io: dai e dai, aizza aizza, qualcuno lo trovi più fragile e più disperato che fa la strage. Fare leva sulla "pancia" della gente contro la politica e contro la democrazia non è mai stato esercizio fruttuoso e sano, come la Storia ci racconta.
"Posso tollerare la forza bruta, ma la ragione bruta è veramente insopportabile." Diceva Oscar Wilde e mi trova totalmente d'accordo.