venerdì 25 giugno 2010


La restituzione del Sogno

di Piero Montanari

Quattro anni fa, il giorno dopo la vittoria della Nazionale Italiana sulla Francia di ‘Toro’ Zidane ai mondiali di Germania, presi un aereo per la Tunisia con la mia famigliola, per una vacanza nell’Africa francofona. Ci portammo dietro una bandiera tricolore, una di quelle che si tirano fuori per l’occasione calcistica e per far venire l’orticaria a Bossi. Entrammo sull’aereo e, al primo “bonjour” della hostess la tirammo fuori squotendola davanti ai suoi occhi divertiti.
La notte prima non chiudemmo occhio, com’era giusto che fosse, perché Lippi ci aveva regalato un Sogno lungo ventiquattro anni, una vittoria mondiale che ci proiettava tra le più forti squadre del globo terracqueo.
Abbiamo vissuto, anche se con molti scricchiolii, quattro anni da Campioni, con l’orgoglio di essere i primi della classe e la Nazionale che - guai trovarsela davanti - .
Oggi, alla luce di questa ignomignosa cacciata dal Mondiale, con la classifica che parla chiaro: ultimi con davanti squadre che non troverebbero posto in una terza categoria, è facile prendersela con Lippi.
Anzi, è difficile perché, molto furbescamente, l’ha fatto lui per primo, addossandosi tutte le responsabilità dell’insuccesso e togliendoci il piacere nonché il diritto di criticarlo. Pure questo ci ha negato!
Variale, il giornalista con la lingua tra le più felpate d’Italia, gli ha detto che è un ‘vero uomo’ per come ha ammesso le sue pecche.
Invece penso che Lippi non sia così grande e così vero perchè ha rivoluto indietro il Sogno che era nostro e che ci regalò in Germania.
Mi consola solo una cosa: ora siamo pari e patta, non gli dobbiamo più nulla, - più nulla a pretendere – come diceva Totò sulla famosa lettera.
Addio Lippi, grazie di nulla e si accomodi, please.

mercoledì 23 giugno 2010

Abbiamo Bossi, ecco perchè non ci meritiamo Garibaldi

Un altro articolo di Giancarlo Governi

I leghisti e Bossi partirono a briglia sciolta nell’estate del 1996, dopo la vittoria dell’Ulivo e l’insediamento di Romano Prodi a Palazzo Chigi. Le loro prodezze conquistarono subito le pagine dei giornali a corto di notizie e scatenarono i corsivisti più brillanti che fecero a gara a stigmatizzare gli strafalcioni del popolo verde e del suo capo, in un delirio agostano in cui Bossi, non contento di essersi impadronito di Giuseppe Verdi e del suo “Va pensiero”, disse la sua anche su Picasso, definito un pittore espressionista che combatté contro gli impressionisti (una disputa che, tra l’altro, non mi risulta ci sia mai stata, perché, quando arrivarono gli espressionisti, l’impressionismo era finito da un pezzo), e collocando il Coro dei Lombardi addirittura nel Nabucco.
Le prodezze culturali dei leghisti (rinforzati recentemente da Renzo, il figlio di Bossi, che ha rinunciato, dopo tre bocciature, alla maturità nelle scuole italiane, in attesa di ottenere direttamente una laurea honoris causa da una università padana) sono continuate in questi anni e sono diventate, a mio avviso, anche pericolose dopo la conquista leghista delle regioni del nord.
In quella estate di 14 anni fa ridevamo delle uscite di Bossi e ci domandavamo se un personaggio simile, che dovrebbe essere rimandato a scuola serale e condannato a leggersi qualche libro,perché dovesse godere di tutto questo spazio sulla stampa. E ci domandavamo come fosse possibile che un personaggio pubblico non sapesse che Giuseppe Verdi fu il campione dell’Unità d’Italia (il suo cognome diventò l’acronimo di Vittorio Emanuele Re d’Italia), che le sue opere e ancora di più i celeberrimi cori, compreso quello dei Lombardi che il Bossi colloca erroneamente nel Nabucco, sono un accorato appello all’Italia libera e una.
Gli anni sono passati ma nessuno ride più, nessuno si permette più di scherzare sulle sortite anti risorgimentali, nessuno più si indigna per il vilipendio continuo non solo ai simboli della Patria ma anche a Garibaldi, il vero artefice dell’unità d’Italia.
E siccome Garibaldi non lo difende più nessuno e non viene neppure più inserito nei temi della maturità, proprio nell’anno in cui si celebra la sua straordinaria impresa (ma lo abbiamo meritato noi italiani un personaggio simile? Io penso di no), ora per pungere chi ancora si sente italiano, Bossi ha sparato contro la nazionale di calcio, l’ultimo simbolo della Patria intorno al quale periodicamente gli italiani si riconoscono. Prima ha cominciato Renzo a dire che lui non tifa per l’Italia (e chissene abbiamo pensato in tantissimi) ma sentendo un ministro della Repubblica che dichiara che l’Italia comprerà la partita con la Slovacchia per procedere nella sua avventura mondiale, non possiamo dire “chissene”. Possiamo soltanto dire basta e, in quel ricchissimo idioma romano che lui così tanto detesta, dedicargli gli insulti più coloriti di cui abbonda la lingua del Belli.

martedì 8 giugno 2010

Un articolo di Giancarlo Governi

Straordinario e inquietante articolo di Giancarlo, che ci offre molti spunti di riflessone soprattutto in questo momento storico nel quale la cultura sta avendo la peggio.

Caro Direttore,
due notizie di oggi mi invitano a ricordi e riflessioni.
Comincio dalla riflessione: se un giocatore dei "bleus", la nazionale di calcio francese, avesse offeso la Marsigliese, come ha fatto il signor Marchisio con l'Inno di Mameli, secondo te sarebbe partito per il Sud Africa? Io penso proprio di no, perché sarebbe arrivato l'ordine dalla federazione calcio di rimandarlo a casa, spernacchiato da tutti i francesi. Perché la Marsigliese per i francesi è sacra, come dovrebbe essere sacro l'Inno d'Italia per gli italiani. C'è stato un periodo della storia d'Italia in cui l'inno non veniva suonato neppure quando arrivava il Presidente della Repubblica. Ricordo una sera all'Opera di Roma. Prima dello spettacolo il pubblico era già seduto, l'orchestra era schierata sul palco pronta per iniziare il concerto, quando entrò il Presidente Cossiga. Se all'opera di Parigi fosse entrato Mitterand, il pubblico si sarebbe alzato in piedi e l'orchestra avrebbe attaccato la Marsigliese. A Roma non successe niente di tutto questo, Cossiga entrò alla chetichella come uno spettatore ritardatario, l'orchestra tacque e il pubblico non solo non si alzò in piedi ma non fece neppure un timido applauso. Erano anni in cui nessuno usava più la parola "Italia", sostituita da un più generico "il nostro Paese". Fu Francesco De Gregori a sdoganare il nome della nostra nazione, con una delle sue più belle canzoni, "Viva l'Italia", che conteneva versi straordinari come "viva l'Italia nella notte scura, viva l'Italia che non ha paura". Ci pensò poi Carlo Azeglio Ciampi (e oggi Giorgio Napolitano sta continuando il suo insegnamento) a rilanciare i simboli della Patria: la bandiera e l'Inno. Ricordò a tutti che quell'inno, scelto in via provvisoria ma reso oramai definitivo, come inno nazionale dai Padri Costituenti, era stato scritto tanti anni fa da un giovane, Goffredo Mameli, che all'età di 22 anni, aveva lasciato la vita sulle barricate garibaldine, nell'estrema difesa della Repubblica romana. Sono parole demodé, quelle di Mameli, rese incomprensibili dal tempo. Chi capisce più il significato di versi come questi: "... dell'elmo di Scipio si è cinta la testa/ dov'è la vittoria/ le porga la chioma/ ché schiava di Roma/ Iddio la creò..."? Quanti saprebbero riconoscere in questo misterioso Scipio, Scipione l'Africano? Bossi ha mostrato di non capire neppure il senso grammaticale di questi versi, quando disse "schiava di Roma giammai...", non avendo capito che è la vittoria ad essere schiava di Roma. Della Roma antica, della Roma che conquistò tutto il mondo conosciuto al quale portò leggi e civiltà, e non la Roma, capitale d'Italia di oggi, sede del governo a cui i leghisti attribuiscono le peggiori malefatte, racchiuse nell'epiteto "ladrona" che l’ignaro Marchisio ha aggiunto alle parole di Goffredo Mameli.
Ho letto la notizia sul web dove si diceva che molti chiedevano a gran voce l'esclusione dalla nazionale di Marchisio. Devo dire che la notizia mi ha dato qualche speranza: vuoi vedere, mi sono detto, che gli italiani di internet si sono indignati? E invece no, si sono indignati i tifosi della “Roma” calcistica che hanno ricordato a Marchisio che la squadra “ladrona” per eccellenza è propria quella in cui lui milita: la Juventus.
Che fare? Marcello Marchesi direbbe: “di fronte a questi fatti, Santa Rita… s’accascia”. E anche io, lungi dall’accostarmi a Santa Rita, mi sono accasciato.
Il ricordo me lo suggerisce Ombretta Colli che ha detto che le canzoni di Gigi D’Alessio danno più l’idea della grande Napoli dei discorsi di Saviano. Io tanti anni fa dirigevo la fiction di Raiuno che produceva “La Piovra”. Ebbene di discorsi come quelli della Colli che, se non fossero un segno dei brutti tempi che stiamo vivendo, ci metterebbero di buonumore, io all’epoca della Piovra me ne sono sentiti fare tanti, alcuni a brutto muso. E se non ci fosse stato un grande direttore come Biagio Agnes a difenderci, avremmo rischiato grosso. “Denigra l’Italia all’estero” dicevano, dimenticando che a denigrare il nostro paese era il fenomeno della mafia e non la sua rappresentazione.
Caro Direttore, forse ha ragione la Colli, perché starsi a preoccupare di troppe cose, quando (detto con le parole di Fiorelli e Valente che scrivevano canzoni molto più belle di quelle che canta oggi D’Alessio) “basta che ce sta ‘o sole/ ca c’è rimasto ‘o mare/ ‘na nenna a core a core/ ‘na canzone pe’ canta…”.
E se lo dice Ombretta Colli che fa parte della commissione cultura della Camera, ci possiamo credere.
Mi scuso per lo sfogo e ti ringrazio per l’attenzione.

Post scriptum

Va bene. Ammettiamo che Marchisio sia innocente e che non abbia mai aggiunto il famigerato aggettivo "ladrona" al sostantivo Roma. Il discorso sul rispetto dei simboli della Patria vale lo stesso. Come vale il ricordo di Mameli. Come vale l'ignoranza di Bossi e compagni i quali, alla cerimonia del 2 giugno, hanno avuto l'impudenza di suonare "la gatta" di Paoli. Provate a togliere il riferimento a Marchisio e vedrete che l'articolo ha egualmente valore, perché esprime una opinione che avrebbe potuto essere espressa già in altre occasioni. Nelle tante occasioni che i leghisti da anni non ci fanno mancare.